Cassazione Penale – Un malore non esonera da responsabilità l’amministratore unico e il dirigente per la caduta mortale del lavoratore da una scala
Cassazione Penale, Sez. 4, 29 maggio 2018, n. 24070 – Un malore non esonera da responsabilità l’amministratore unico e il dirigente per la caduta mortale del lavoratore da una scala.
Fatto: l. La Corte di Appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosciuta l’attenuante del risarcimento del danno e valutala equivalente, unitamente alle attenuanti generiche, all’aggravante contestata, ha ridotto la pena inflitta a G.C. e S.C. a mesi otto di reclusione, confermandone la condanna, ai sensi dell’art. 589, primo e secondo comma, cod.pen., per aver cagionato, in qualità di amministratore unico della SICMI Montaggi s.r.l. e di dirigente dello stabilimento, la morte del lavoratore L.G., caduto da una scala, nel corso dell’operazione di imbracatura di una virola, per colpa consistita nell’omissione degli adempimenti necessari e prescritti dalla legge per il buon governo del rischio della caduta dall’alto (9 aprile 2008). Più precisamente, secondo i giudici di merito, da un lato, “non costituisce questione dirimente che la caduta del L.G. sia stata causata da malore o da una sua perdita di equilibrio per difetto nell’appoggio della scala, poiché, ricadendo entrambe le ipotesi nell’area del rischio prevedibile, esse avrebbero dovuto essere oggetto di specifica misura di prevenzione” e, dall’altro, sebbene la SICMI non fosse assolutamente negligente nell’adozione e nell’implementazione delle misure di sicurezza e prevenzione, “tuttavia il debito di sicurezza gravante sui titolari delle posizioni di garanzia, con specifico riferimento all’esecuzione di lavori in quota, non può dirsi adempito, sotto il profilo tecnico, con la semplice messa a disposizione delle adeguate attrezzature, né, sotto il profilo formativo, con la somministrazione di aspecifici corsi di aggiornamento, né, sotto il profilo organizzativo, con generiche istruzioni, concordate oralmente con i lavoratori caso per caso, che lascino ai preposti o agli stessi lavoratori la gestione di un rischio che dovrebbe, invece, essere oggetto di preventiva e dedicata regolamentazione”. Nella sentenza di appello è stata evidenziata una gestione approssimativa del rischio connesso all’esecuzione dei lavori in quota, non adeguatamente valutato nel documento di valutazione rischio e nel manuale di sicurezza né disciplinato da altre istruzioni scritte; si è, inoltre, sottolineato che L.G. non hai mai preso parte a corsi di formazione e che, comunque, la formazione non ha mai avuto ad oggetto, nello specifico, i lavori in quota. Si è, infine, ritenuto, condividendo le conclusioni del consulente del P.M., che la scala, tenuto conto della peculiarità del lavoro, che richiedeva l’uso di entrambe le mani, e dell’assenza di una presa sicura, era un mezzo poco adeguato per il lavoro svolto da L.G., a cui si sarebbe dovuto preferire il trabatello o la piattaforma aerea, presenti nello stabilimento.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto tempestivamente ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, gli imputati, deducendo la violazione di legge per la illegittima compressione dei diritti di difesa (artt. 24, 111 Cost., art. 6 Cedu, artt. 178, 181, 489, 499, 501 e 506 cod.proc.pen., artt. 40 e 41 cod.pen.) e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto; la violazione degli artt. 40, 41 cod.pen., 533 cod.proc.pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla rilevanza causale, da un lato, del malore e, dall’altro, del comportamento abnorme della vittima e dei preposti delegati al controllo; la mancanza di motivazione ed il travisamento della prova in ordine alla posizione di garanzia degli imputati, in particolare di G.C., amministratore di altre dieci società, nonostante la esistenza di specifici preposti con compiti di vigilanza. In particolare, secondo i ricorrenti, i giudici hanno impedito al teste Espa, all’udienza del 25 novembre 2011, di rispondere in merito alle domande del difensore sull’eventuale malore della vittima, che, nella prospettazione difensiva, sarebbe causa esclusiva della caduta e del decesso, mancando, al contrario, nel provvedimento impugnato un adeguato approfondimento sul nesso causale tra la violazione delle norme infortunistiche e l’evento mortale; vi sarebbe, inoltre, un travisamento della prova: 1) circa l’inadeguatezza dell’uso della scala per il lavoro in esame (scala, al contrario, ritenuta idonea nella sentenza di primo grado, p.ll), divenuta pericolosa solo in conseguenza del comportamento abnorme dei lavoratori coinvolti, non avendo il collega della vittima assicurato il fermo sulla pavimentazione e non essendo intervenuti i preposti appositamente incaricati della vigilanza (C., capo officina; M., vice capo officina; D., capo squadra); 2) circa l’inesistenza di istruzioni scritte in relazione ai lavori in quota, contenute, invece, nel manuale di sicurezza interna prodotto. In definitiva, la responsabilità degli imputati sarebbe stata fondata non sulle omissioni contestate, essendo risultati dal dibattimento l’adempimento degli obblighi di formazione, di valutazione del rischio relativo ai lavori in quota e di adozione delle necessarie cautele e dispositivi di sicurezza, ma piuttosto sull’omissione di controllo e di provvedimenti sanzionatori nei confronti di coloro che avevano trasgredito le direttive impartite.
Diritto: 1. I motivi di ricorso relativi alla illegittima compressione del diritto di difesa sull’asserito malore della vittima e sulla sua rilevanza causale non meritano accoglimento, atteso che il provvedimento impugnato, con una motivazione congrua, non manifestamente illogica e priva di contraddizioni, ha accertato che la causa esclusiva del decesso di L.G. è stata la caduta, non essendo emerse altre patologie assorbenti (quali un infarto o un attacco ischemico, che, come affermato dal c.t. P., avrebbero lasciato segni anatomici peculiari e rilevabili), sicché l’incidenza del malessere, ipotizzato dalla difesa, sarebbe limitata alla caduta e non potrebbe escludere la responsabilità degli imputati rispetto al decesso “poiché il verificarsi di contingenti situazioni di malessere psico-fisico in capo ai lavoratori costituisce evenienza prevedibile, cui corrisponde di riflesso, l’obbligo dei titolari di posizioni di garanzia di predisporre misure di tutela specifiche ed adeguate”. Tale conclusione è, peraltro, pienamente conforme con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la circostanza che il lavoratore possa trovarsi, in via contingente, in condizioni psico-fisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnati è evenienza prevedibile, che come tale non elide il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’infortunio (Sez. 4, n. 38129 del 13/06/2013 ud., dep. 17/09/2013, rv. 256417) e secondo cui le misure antinfortunistiche servono anche a salvaguardare i lavoratori distratti o poco attenti per familiarità con il pericolo o poco capaci o, comunque, esposti per un fatto eccezionale ed imprevedibile ad un rischio inerente al tipo di attività cui sono destinati, sicché anche una caduta accidentale, un malore o simili non escludono il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro, per mancata predisposizione di misure di prevenzione, e l’evento (Sez. 3 n. 164 del 11/11/1983 ud, dep. 09/01/1984, rv. 162044).
L’ineccepibile ricostruzione dei fatti comporta il superamento della questione avente ad oggetto l’asserita compressione del diritto di difesa, atteso che, ai sensi dell’art. 190 cod.proc.pen., il diritto alla prova non si estende alla prove manifestamente superflue o irrilevanti (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015 ud., dep. 11/03/2016, rv. 267559, secondo cui la violazione del diritto di difesa, “sub specie” di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata indicando specificamente le prove che l’imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell’imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi, trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, ex art. 495 cod. proc. pen.). Risulta, dunque, congrua, non manifestamente illogica e priva di contraddizioni la motivazione che ha condotto la Corte di Appello al rigetto delle questioni processuali proposte relativamente alla violazione del diritto di difesa ed alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, “non sussistendo i presupposti di legge in presenza di un compendio probatorio completa” ai fini del giudizio.
2. Parimenti non meritano accoglimento i motivi relativi all’incidenza causale del comportamento abnorme del lavoratore, che non ha fatto uso dei dispositivi di sicurezza in sua dotazione, e dei suoi compagni di squadra, che non hanno provveduto a fermare la scala sulla pavimentazione di appoggio.
Occorre premettere che il comportamento del lavoratore può definirsi abnorme solo se del tutto estraneo al ciclo produttivo o, comunque, completamente difforme rispetto alle specifiche istruzioni ricevute (v., tra le altre, Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 ud., dep. 27/01/2015, rv. 261946, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l’osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile).
Nel caso di specie, invece, i fatti si sono svolti nel corso delle ordinarie operazioni, che non erano state oggetto né di una specifica e dettagliata disciplina né di una apposita formazione, proprio in considerazione di una inadeguata valutazione del rischio connesso ai lavori in quota (v., ad esempio, p. 22 “non può essere definito comportamento abnorme l’uso scorretto della scala fatto dalla squadra del L.G., consistito nel mancato fissaggio ad un elemento stabile e nella mancata tenuta al piede della scala stessa, atteso che tale condotta – dipesa, in ultima istanza, dall’improvvida scelta del mezzo, conseguente alla scorretta valutazione del rischio effettuata dal datore di lavoro e dalla mancanza di adeguate istruzioni fornite dal dirigente che imponessero l’utilizzo di mezzi più sicuri -costituisce ipotesi prevedibile nello svolgimento della mansione assegnata”).
Va, inoltre, sottolineato che i giudici di merito hanno accertato l’irrilevanza causale del mancato uso dell’elmetto (“se anche, per ipotesi, il casco fosse stato in grado di riparare totalmente il L.G. dalle lesioni cranico-encefaliche, l’evento fatale si sarebbe comunque verificato per effetto dei restanti traumi”), mentre mancavano “punti fissi a cui poter agganciare le cinture di sicurezza”.
Invero, nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, è stato determinante rispetto alla fatale caduta l’uso della scala, mezzo che, pur risultando inadeguato rispetto ai lavori da eseguirsi con entrambe le mani, è stato scelto dai lavoratori in assenza di specifiche istruzioni contrarie e di una specifica valutazione dei rischi relativi ai lavori in quota.
3. In definitiva, tutte le censure formulate si fondano su versione diversa e alternativa rispetto a quella operata nel provvedimento impugnato, in cui si è addebitato agli imputati una carente ed inadeguata valutazione dei rischi connessi ai lavori in quota, da cui è derivata l’assenza di istruzioni precise e l’uso del mezzo improprio e poco sicuro della scala per un lavoro in cui era richiesto l’utilizzo di entrambe le mani, in luogo del trabattello o della piattaforma aerea, unitamente all’assenza di formazione specifica dei lavoratori (ivi compresi i preposti alla vigilanza) su tali aspetti. Su queste argomentazioni il ricorso non si sofferma, asserendo, invece, l’adeguata valutazione del rischio e l’assoluta sicurezza delle prassi seguite e dell’uso della scala – così, ad esempio, a p. 9 del ricorso si legge “è risultato che tutti avevano frequentato corsi di formazione; ..che esistevano specifiche istruzioni scritte in relazione ai lavori in quota””, mentre nella sentenza impugnata si è accertato a p. 18 che “la vittima L.G. non prese parte ad alcuno di essi (corsi di formazione)”..e che la formazione non ha mai avuto ad oggetto, nello specifico, i lavori in quota e a p. 16- 17 che non vi erano istruzioni scritte sui lavori in quota.
Tuttavia, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 ud., dep. 27/11/2015, rv. 265482), sicché i motivi di ricorsi risultano in parte inammissibili.
Per quanto concerne, infine, gli asseriti travisamenti della prova, va ricordato che, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, tale vizio, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 ud., dep. 20/02/2017, rv. 269217).
In proposito occorre sottolineare che nella sentenza di primo grado si legge a p.ll che l’uso della scala “è sicuramente incompatibile con le esigenze di sicurezza in tutti i casi in cui l’operatore si reca in quota per eseguire dei lavori che necessitano l’uso di entrambe le mani” e che “risulta pacifico che l’operatore ..aveva la necessità di usare entrambe le mani”; in quella di secondo grado è precisato che “considerato che l’ultimo comma dell’art. 36-ter d.lgs. n. 626 del 1994 prevede che, durante l’utilizzo di una scala pioli il lavoratore debba disporre comunque di una presa ed un appoggio sicuri, se ne deduce che per mansione in questione la scala sarebbe stata mezzo adeguato solo se il lavoratore non avesse dovuto svolgere operazioni che richiedessero l’utilizzo di entrambe le mani …. specialmente in un ambiente di lavoro che, come si evince dalla visione del fascicolo fotografico, non aveva installato alcun dispositivo anti-caduta né presentava elementi fissi cui poter utilmente agganciare una cintura di sicurezza”. In definitiva, la valutazione dei due giudici di merito sull’inadeguatezza della scala per il lavoro in esame risulta coincidente e, peraltro, non è censurata con argomentazioni pertinenti e decisive dal ricorrente, il quale si limita ad insistere sul mancato ancoraggio della scala, da parte della vittima e degli altri lavoratori, senza minimamente soffermarsi sulla effettiva idoneità dell’ancoraggio ad evitare, nel caso di specie, la caduta di L.G..
Per quanto concerne, invece, le istruzioni scritte in relazione ai lavori in quota, il ricorrente ha indicato il punto 6.5. del Manuale di sicurezza interna, in cui è dettagliatamente disciplinato l’uso della scala, ma non è contenuta alcuna previsione generale sui lavori in quota e sulla necessità di adoperare strumenti alternativi alla scala, quale la piattaforma aerea o il trabattello, per determinate tipologie di lavori, come rilevato dai giudici di merito, che concordemente hanno ritenuta inadeguata la valutazione di tale rischio da parte degli imputati.
4. Peraltro, le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito risultano pienamente conformi all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la valutazione del rischio deve essere eseguita con il massimo grado di specificità, sicché per i lavori in quota non è sufficiente la disciplina del solo uso della scala, ma è necessario chiarire le ipotesi in cui si possa ricorrere a tale strumento senza pericolo e le ipotesi in cui è, invece, necessario avvalersi di altri strumenti (v., tra tante, Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016 ud., dep. 16/05/2016, rv. 267253, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro, e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori).
4.Nè ha pregio l’ultimo motivo, atteso che la posizione di amministratore della società e dirigente dello stabilimento rende gli imputati titolari della posizione di garanzia, che non può essere esclusa né in considerazione di altri incarichi dagli stessi rivestiti in altre società né dalla presenza di ulteriori soggetti investiti di compiti di collaborazione. In particolare i ricorrenti non hanno indicato in modo specifico e puntuale situazioni da cui la legge farebbe discendere il loro esonero da responsabilità. Precisato, inoltre, che il motivo si riferisce essenzialmente a G.C., va ricordato che il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione di suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata (Sez. 4, n.27295 del 02/12/2016 ud., dep. 31/05/2017, rv. 270355).
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato con conseguente condanna al pagamento delle spese del procedimento.
PQM: rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
FONTE: Cassazione Penale