Sicurezza Lavoro. Condannato datore di lavoro per attrezzature non adeguate e obsolete
Fatto: 1. La Corte di Appello di Roma, con la sentenza in epigrafe, ha parzialmente riformato, dichiarando estinto per prescrizione il reato contestato al capo B) e rideterminando in quattro mesi di reclusione la pena per il reato di cui al capo A), la pronuncia di condanna emessa il 12/11/2014 dal Tribunale di Velletri – Ufficio di Frascati nei confronti di B.R., imputato del reato di cui all’art. 590, commi 1, 2 e 3, cod. pen. (capo A) perché nella qualità di amministratore di fatto della G.E.M.A.R.C. s.n.c. di B.G. & C. e di datore di lavoro di R.G., per colpa consistita nell’inosservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, dell’art. 71 d. Lgs. 9 aprile 2008, n.81, prescrivente che il datore di lavoro metta a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee ai fini della salute e sicurezza adeguate al lavoro da svolgere, metteva a disposizione del lavoratore dipendente R.G. una scala non idoneamente ancorata o vincolata a parti stabili, provocando la caduta in terra del predetto e cagionandogli così lesioni personali consistite in una ferita lacero-contusa della mano destra e del IV dito della mano destra, malattia giudicata guaribile in giorni 50; con una seconda imputazione si contestava la violazione degli artt.71, comma 2, e 87, comma 2, d. Lgs. n.81/2008 (capo B). Entrambi i reati commessi in Montecompatri il 25 luglio 2009.
2. Il fatto è stato così ricostruito nelle fasi di merito: il lavoratore R.G., dipendente della G.E.M.A.R.C., era salito su una scala, su disposizione di B.R., per chiudere una finestra posta a poco più di tre metri da terra; nel tentativo di chiudere con forza detta finestra, la scala, priva dei gommini antiscivolo e non aderente al muro per la presenza di materiale in alluminio, era scivolata; il lavoratore aveva tentato di proteggersi nella fase di caduta con la mano, che era finita contro una barra con punta tagliente derivandone una grave ferita lacero-contusa della mano destra e del IV dito; la scala messa a disposizione del lavoratore non era idonea ad impedire cadute dall’alto e non ancorata o vincolata a parti stabili.
3. B.R. ricorre per cassazione censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) violazione dell’art. 606, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. per omessa motivazione in ordine a specifiche doglianze formulate nel primo motivo di appello presentato personalmente dall’imputato nonché nei motivi aggiunti presentati dal difensore e concernenti, in particolare: l’inattendibilità della parte civile, l’immotivato giudizio di inattendibilità del teste I., l’incompatibilità della presenza di calce sugli abiti da muratore del R.G. il giorno dell’infortunio con le mansioni svolte presso la G.E.M.A.R.C., il travisamento della deposizione del teste M. sulle possibili origini della ferita, l’inutilizzabilità ai sensi dell’art.195, comma 4, cod.proc.pen. delle dichiarazioni de relato degli Ispettori del Lavoro B. e C., l’irrilevanza dell’estratto conto previdenziale dell’INPS del R.G. in quanto generato d’ufficio dall’istituto a seguito della denuncia del lavoratore;
b) violazione dell’art.606, comma 1, lett.e), b) e c) cod.proc.pen, per omessa motivazione in relazione a specifiche doglianze formulate nel secondo motivo di appello presentato personalmente dall’imputato, per inosservanza dell’art. 299 d. Lgs. n.81/2008 sull’asserita qualifica di B.R. quale datore di fatto, per erronea applicazione dell’art.195, comma 4, cod.proc.pen. per l’utilizzo di dichiarazioni de relato rese alla polizia giudiziaria. In particolare, l’imputato aveva dedotto l’assenza di prove in merito al ruolo da lui rivestito all’interno della società ed in merito all’esercizio di poteri giuridici propri del datore di lavoro, desunti dal mero fatto che avesse chiesto al lavoratore di salire sulla scala e dal fatto che alcuni dipendenti avessero riferito agli ispettori del lavoro che B.R. fornisse direttive, senza considerare il suo ruolo di socio lavoratore ed il vincolo familiare con il legale rappresentante dell’impresa e con colui che la stessa persona offesa aveva individuato come «capo»;
c) violazione dell’art.606, comma 1, lett.e) ed e) cod.proc.pen. in relazione al diritto stabilito dall’art.495, comma 2, cod.proc.pen.; violazione del principio di «parità delle armi» sancito dall’art.6, comma 3, lett. d) CEDU in relazione alla revoca da parte del giudice di primo grado, all’udienza del 27 ottobre 2014, della precedente ammissione dei testi a discarico; nonostante la difesa avesse insistito nell’istanza di audizione dei tre testi a discarico assenti all’udienza del 27 ottobre 2014, il tribunale ha immotivatamente ritenuto di disporre l’esame e l’accompagnamento coatto di un solo teste, mentre sarebbero state decisive anche le dichiarazioni degli altri due testimoni, sia in merito al verificarsi dell’infortunio sia in merito al ruolo rivestito dall’imputato nell’organizzazione aziendale;
d) violazione dell’art.606, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. per l’omessa motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione dibattimentale, con audizione dei due predetti testimoni;
e) violazione dell’art.606, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. per l’omessa motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione dibattimentale, con acquisizione dei tabulati telefonici del cellulare in uso alla parte civile;
f) violazione dell’art.606, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. per l’omessa motivazione in ordine al documento sopravvenuto con il quale l’INPS aveva comunicato alla G.E.M.A.R.C. di aver respinto la richiesta di indennizzo per l’infortunio.
4. Con memoria depositata il 21 marzo 2018 il difensore di parte civile ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile in quanto tardivamente proposto; deduce, in particolare, che l’erronea dichiarazione di contumacia dell’imputato ha determinato la notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza, comunque inidonea ad incidere sui termini per impugnare. La parte ha anche chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza o per motivi non consentiti.
Diritto: 1. Il Collegio rileva, con riguardo alla tempestività del ricorso, che la dichiarazione di contumacia in primo grado ha determinato l’applicazione al presente processo della disciplina previgente in materia di contumacia dell’imputato. Ai sensi dell’art.15 bis, comma 2, legge 28 aprile 2014, n.67, introdotto con legge 11 agosto 2014, n.118, non rileva che il dispositivo della sentenza di primo grado sia stato letto successivamente all’entrata in vigore della legge n.67/2014 qualora l’imputato fosse stato antecedentemente dichiarato contumace ma non irreperibile. Nel caso concreto, per l’appunto, l’imputato era stato dichiarato contumace in primo grado, il dispositivo della sentenza risulta emesso il 12 novembre 2014 e non risulta essere stato pronunciato il decreto di irreperibilità; trova, pertanto, applicazione la disciplina dettata dal citato art.15 bis, comma 2, in deroga alla norma transitoria dettata dal primo comma del medesimo articolo.
1.1. Giova rilevare che, trovando applicazione la disciplina previgente, nessuna delle ipotesi previste dall’art.420 bis, comma 2, cod.proc.pen. avrebbe potuto assumere rilievo per escludere l’obbligo di notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza di appello, posto che la sola comparizione in giudizio dell’imputato avrebbe potuto determinare la revoca, anche in assenza di un provvedimento formale, della dichiarazione di contumacia nonché l’inapplicabilità della relativa disciplina.
1.2. Correttamente, dunque, la sentenza di appello è stata notificata all’imputato, la cui posizione processuale era quella di «contumace», ed il ricorso è, per tale ragione, tempestivo.
2. L’esame della motivazione consente di escludere che il ricorso sia manifestamente infondato ed impone di rilevare l’intervenuto decorso del termine di prescrizione del reato.
2.1. Il reato per il quale è stata confermata la sentenza di condanna è, dunque, estinto per prescrizione, trattandosi di fatto commesso in data 25 luglio 2009, in relazione al quale trova applicazione la disciplina dettata dalla legge 5 dicembre 2005, n.251; con la conseguenza che, trattandosi di delitto, il termine massimo di prescrizione deve ritenersi stabilito in sette anni e sei mesi, in virtù del combinato disposto degli artt. 157,160, comma 3, e 161, comma 2, cod.pen. Va, quindi, osservato che, pur computando mesi 6 e giorni 27 di sospensione, è venuto a maturare il termine massimo prescrizionale previsto dalla legge per il reato in esame, compiutosi in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello.
2.2. La delibazione dei motivi sopra indicati fa escludere l’emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell’evidente innocenza del ricorrente. Sul punto, l’orientamento della Corte di Cassazione è univoco. In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art.129, comma 2, cod.proc.pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 24427501). Nel caso di specie, restando al vaglio previsto dall’art. 129, comma 2, cod.proc.pen., l’assenza di elementi univoci dai quali possa trarsi, senza necessità di approfondimento critico, il convincimento di innocenza dell’imputato impone l’applicazione della causa estintiva.
2.3. Va disposto, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali nei confronti di B.R., essendo il reato ascrittogli estinto per prescrizione.
3. Ma, nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice o dal giudice di appello ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art.578 cod.proc.pen., è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per prescrizione, ad esaminare il fondamento dell’azione civile. In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunziata dal primo giudice o, come nel caso in esame, confermata dal giudice di appello.
3.1. Con riguardo, in particolare, all’impugnazione proposta anche in relazione alle statuizioni civili, secondo quanto già affermato da questa Sezione (Sez.4, n.10802 del 21/01/2009, Motta, Rv.24397601), trova applicazione il principio cosiddetto di immanenza della costituzione di parte civile. In ragione di tale principio, normativamente previsto dall’art.76, comma 2, cod. proc. pen., secondo il quale «la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo», il giudice di legittimità è tenuto a verificare l’esistenza dei presupposti per l’affermazione della responsabilità penale ai soli fini della pronuncia sull’azione civile, allorché abbia rilevato una causa estintiva del reato. Tale principio comporta, infatti, che la parte civile, una volta costituita, debba ritenersi presente nel processo anche se non compaia, debba essere citata anche nei successivi gradi di giudizio anche se non impugnante e senza che sia necessario per ogni grado di giudizio un nuovo atto di costituzione.
3.2. Corollario di questo principio generale è che l’immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita – previsti dall’art.82, comma 2, cod.proc.pen., nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell’azione davanti al giudice civile – non possono essere estesi al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla norma indicata (Sez. 5, n.39471 del 04/06/2013 , De Iuliis, Rv. 25719901;Sez. 6, n.48397 del 11/12/2008,Russo,Rv. 24213201;Sez. 4, n.2 4360 del 28/05/2008, Rago, Rv. 24094201; Sez.5, n.12959 del 8/02/2006, Lio, Rv.23453601; Sez.6, n.25723 del 6/05/2003, Manfredi, Rv. 22557601; Sez.l, n.9731 del 12/05/1998, Totano, Rv. 21132301).
4. Tanto premesso, con riguardo alla dedotta carenza di motivazione non si può tralasciare di ricordare che, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, è costante l’affermazione di principio secondo la quale nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’esplicita analisi di tutte le deduzioni delle parti né a fornire espressa spiegazione in merito al valore probatorio di tutte le emergenze istruttorie, essendo necessario e sufficiente che spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dalle quali si dovranno ritenere implicitamente disattese le opposte deduzioni difensive ancorché non apertamente confutate. In altre parole, non rappresenta vizio censurabile l’omesso esame critico di ogni questione sottoposta all’attenzione del giudice di merito qualora dal complessivo contesto argomentativo sia desumibile che alcune questioni siano state implicitamente rigettate o ritenute non decisive, essendo a tal fine sufficiente che la pronuncia enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono ritenuti determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez.l, n.46566 del 21/02/2017, M, Rv. 27122701; Sez.2, n.9242 del 8/02/2013, Reggio, Rv.25498801; Sez.6, n.49970 del 19/10/2012, Muià, Rv.25410701; Sez.4, n.34747 del 17/05/2012, Parisi, Rv.25351201; Sez.4, n.45126 del 6/11/2008, Ghisellini, Rv.24190701).
4.1. Deve, tuttavia, rilevarsi che, nel caso concreto, la motivazione risulta eccessivamente sintetica ed inidonea, per l’eccentricità degli argomenti svolti a fronte di specifiche puntualizzazioni contenute nei motivi di appello, a fondare un giudizio di completezza del discorso motivazionale. Gli argomenti addotti neppure consentono di ritenere implicitamente rigettate le deduzioni difensive, posto che si tratta di specifiche deduzioni con carattere di decisività.
4.2. L’imputato, nel suo atto d’impugnazione, aveva evidenziato talune incongruenze nel narrato della parte civile e nella valutazione delle prove, segnatamente: l’aver dichiarato il R.G. al pronto soccorso di essersi infortunato con la bicicletta e l’aver ritrattato tale versione molto tempo dopo affermando di essersi infortunato all’interno dell’officina in giorno di sabato, giorno di chiusura della G.E.M.A.R.C.; la circostanza che il medico di pronto soccorso avesse notato che il lavoratore fosse sporco di calce, laddove presso la G.E.M.A.R.C. si occupava di montaggio di infissi; l’assenza di finestre apribili nell’officina.
4.3. In merito a tali deduzioni la sentenza impugnata non ha fornito congrua replica, posto che l’elenco dei riscontri alla deposizione della parte civile dimostra esclusivamente che il lavoratore non avesse mentito nell’affermare di essere dipendente della G.E.M.A.R.C. per contratto mai formalizzato, ma non affronta il tema, parzialmente diverso, dell’effettiva verificazione dell’infortunio nella data e nel luogo indicati dal lavoratore ritrattante, la cui deposizione in qualità di parte civile avrebbe meritato l’indicazione di validi riscontri strettamente riferibili alla dinamica dell’infortunio ed, in ogni caso, una specifica disamina delle incongruenze sottolineate dalla difesa (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep.2015, Pirajno, Rv. 26173001).
5. Nell’atto di appello si era, inoltre, posta in luce la necessità di un’approfondita analisi degli elementi istruttori che deponessero per la sussistenza della posizione di garanzia in capo al B.R., essendo pacifico che egli non avesse il ruolo di legale rappresentante societario, lamentando l’appellante che non fosse stato evidenziato il contesto organizzativo entro il quale l’imputato si collocasse e quale fosse il suo ruolo effettivo.
5.1. Giova, in proposito, ricordare che la vigente tutela penale dell’Integrità psicofisica dei lavoratori risente della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all’attività lavorativa e di ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione del sistema di sicurezza aziendale nonché su un modello «collaborativo» di gestione del rischio da attività lavorativa. Sono stati, così, delineati i compiti di una serie di soggetti – anche dotati di specifiche professionalità -, nonché degli stessi lavoratori, funzionali ad individuare ed attuare le misure più adeguate a prevenire i rischi connessi all’esercizio dell’attività d’impresa. Le forme di protezione antinfortunistica, dopo l’entrata in vigore dei decreti d’ispirazione comunitaria, tendono, in altre parole, principalmente a minimizzare i rischi bilanciando gli interessi connessi alla sicurezza del lavoro con quelli che vi possano entrare in potenziale contrasto. Ne deriva una diversa prospettiva dalla quale il giudice del merito è tenuto ad accertare la sussistenza delle posizioni di garanzia e le, conseguenti, responsabilità penali per omissione di dovute cautele; se il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi, si tratta, in sostanza, di ampliare il campo di osservazione dell’evento infortunistico, ricomprendendo nell’ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi.
5.2. Quanto alle norme tecniche della cui violazione si discute, i giudici di merito hanno individuato quella di cui alla rubrica e, segnatamente, l’art. 71, comma 1, d. Lgs. 9 aprile 2008, n.81 nella parte in cui prescrive che il datore di lavoro «mette a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere». Tale obbligo va valutato in relazione al generale obbligo incombente sul datore di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; quest’ultimo è, infatti, un obbligo assoluto che non consente, anche in considerazione del rigoroso sistema prevenzionistico introdotto dal citato decreto legislativo, la permanenza di attrezzature pericolose per la sicurezza e la salute dei lavoratori (Sez. 3, n. 46784 del 10/11/2011, Lanfredi, Rv. 25162001).
5.3. Quanto all’individuazione delle diverse posizioni di garanzia nell’ambito dell’organizzazione societaria, giova richiamare testualmente le chiare indicazioni delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione). La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’Incarico conferitogli. Il dirigente, dunque, nell’ambito del suo elevato ruolo nell’organizzazione delle attività, è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; e, quindi, nell’attuazione degli adempimenti che l’ordinamento demanda al datore di lavoro. Tale ruolo, naturalmente, è conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente. Ciò che rileva, quindi, non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta. Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico. Per ambedue le ultime figure occorre tener conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono base e limite della responsabilità; dall’altro, del ruolo di vigilanza e controllo. Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono. Dette definizioni di carattere generale subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni. Ed è ben possibile che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Nell’ambito dello stesso organismo può, dunque, riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Tale complessità fa sì che l’individuazione della responsabilità penale passi, non di rado, attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno.
6. Da quanto indicato in linea di principio con riguardo alla figura del garante in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la motivazione non può ritenersi completa ove, in primo luogo, non contenga una puntuale analisi dell’organizzazione aziendale.
6.1. Una volta escluso il ruolo di legale rappresentante della società datrice di lavoro, con correzione in giudizio dell’imputazione mediante attribuzione all’imputato del ruolo di «amministratore di fatto della G.E.M.A.R.C. s.n.c. e di datore di lavoro», si sarebbe dovuto affrontare il tema della delega delle funzioni ad un soggetto diverso dall’amministratore societario secondo il principio per cui gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere trasferiti con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 d. Lgs. n.81/2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco, ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 26110801; Sez. 4, n. 4350 del 16/12/2015, dep. 2016, Raccuglia, Rv. 26594701).
6.2. Con specifico riguardo al principio di effettività, in base al quale assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, si sarebbe dovuto accertare se i comportamenti descritti fossero occasionali o conseguenti ad una prassi, collegati ad una ripartizione di fatto di sfere di gestione all’Interno dell’organizzazione aziendale, onde spiegare in base a quali indici concreti si potesse ritenere che il B.R. avesse di fatto assunto e svolto i compiti propri del datore di lavoro, non essendo a tal fine sufficiente quanto indicato nella sentenza a proposito della presenza dell’imputato sul luogo al momento dell’Infortunio, all’aver dato disposizione al lavoratore di chiudere una finestra ed all’aver fornito la scala.
6.3. E’ ben vero che nelle sentenze di merito si è richiamata la testimonianza dell’ispettore del lavoro C., il quale aveva riferito di aver appreso dagli operai della G.E.M.A.R.C. che i predetti ricevevano le direttive, nonché i comandi da B.R. e B.C., ma si tratta di testimonianza assunta in violazione dell’art.195, comma 4, cod.proc.pen. in quanto resa da ispettore del lavoro in qualità di agente di polizia giudiziaria su informazioni assunte con le modalità di cui all’art.351 cod.proc.pen. (Sez.2, n.7255 del 18/02/2000, Tornatore, Rv. 21635801).
7. Giova, in proposito, ricordare che l’art. 195, comma 4, cod.proc.pen., nella sua formulazione originaria, prevedeva – in attuazione della direttiva contenuta nell’art.2, n. 31, secondo periodo, I. 16 febbraio 1987, n. 81 – che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non potessero deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni nel corso delle indagini preliminari. La Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., di tale norma nella parte in cui vietava l’utilizzazione agli effetti del giudizio, attraverso la testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni (Corte Cost. n.24 del 31 gennaio 1992), in base all’assunto che gli appartenenti alla polizia giudiziaria hanno capacità di testimoniare, ex art. 196, alla pari di ogni altra persona – né possono ritenersi meno affidabili del testimone comune – e che nei loro confronti non è prevista dall’art. 197 alcuna incompatibilità a deporre. L’art. 4, l. 1 marzo 2001, n. 63 ha riformato la disposizione dell’art.195, comma 4, cod.proc.pen. introducendo nuovamente il divieto per gli ufficiali e gli agenti di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni, ma limitandone l’ambito applicativo alle sole ipotesi in cui tali dichiarazioni siano state raccolte secondo determinate modalità: ex art. 351, da persone informate sui fatti ovvero da imputati in reati connessi o collegati a quello per cui si procede; tramite denunce, querele o istanze presentate oralmente ex art. 357, comma 2, lett. a); tramite sommarie informazioni fornite o dichiarazioni spontanee rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ex art. 357, còmma 2, lett. b).
7.1. In applicazione del nuovo disposto normativo in esame, si deve ritenere che gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria non possano deporre in dibattimento sul contenuto di una denuncia né in ordine alle dichiarazioni in essa contenute; sicché le affermazioni degli stessi, relative a dichiarazioni ricevute da persone da assumere a verbale, non sono utilizzabili e valutabili come prova in dibattimento (escludendosi l’operatività del divieto in sede di giudizio abbreviato – Sez. 6, n. 44420 del 06/07/2010, Belforte, Rv. 24902901; Sez. 1, n. 32963 del 11/05/2010, Guerrisi, Rv. 248235 – e in sede cautelare – Sez. 1, n. 15563 del 22/01/2009, Perrotta, Rv. 24373401; Sez. 2, n. 46023 del 07/11/2007, Montagnese, Rv. 23926501). Si tratterebbe, in particolare, di una forma di inutilizzabilità assoluta, ma non originaria, dell’elemento di prova oggetto della testimonianza indiretta degli agenti di polizia giudiziaria (Sez. 1, n.7014 del 28/01/2003, Rizzitano, Rv. 22345401). L’art. 195, comma 4, secondo periodo, cod.proc.pen. prevede, invece, l’ammissibilità della testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, secondo le regole generali previste dagli altri commi dello stesso articolo, negli «altri casi» rispetto a quelli indicati espressamente nel primo periodo del quarto comma. La possibilità di testimonianza indiretta emerge innanzitutto dalla disciplina generale dell’art. 203, anch’esso pure modificato dalla l.n.63/2001: tali residuali ipotesi sono quelle delle annotazioni e delle verbalizzazioni di cui all’art.357, comma 2, lett. d), e), f), che attengono ad atti irripetibili ed urgenti.
7.2. Il divieto posto dall’art.195, comma 4, cod. proc. pen., ha infatti lo scopo di evitare aggiramenti della regola in base alla quale in dibattimento le precedenti deposizioni sono utilizzabili soltanto ai fini delle contestazioni per stabilire la credibilità del dichiarante (art. 500, comma 2, cod.proc.pen.). La testimonianza indiretta della polizia potrebbe, infatti, veicolare in dibattimento e rendere utilizzabile una deposizione resa fuori del contraddittorio. La reintroduzione del divieto ha determinato numerosi interventi della Corte Costituzionale che, sin dalla sentenza n.32 del 26 febbraio 2002, ha puntualmente rigettato le questioni di legittimità sollevate, escludendo un’irragionevole disparità di trattamento della testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria rispetto a quella dei privati e ribadendo l’esigenza, costituzionalmente garantita, di evitare che, attraverso la testimonianza degli operatori di polizia, possa essere aggirato il divieto di introdurre dichiarazioni da essi verbalizzate, salva l’ipotesi di cui all’art. 512 cod. proc. pen. Princìpi successivamente ribaditi in ulteriori pronunce (Corte Cost. n.258 del 18 luglio 2003; n.489 del 26 novembre 2002; n.326 del 5 luglio 2002, n.293 del 26 giugno 2002).
7.3. Con la sentenza n. 305 del 29 luglio 2008, la Corte Costituzionale ha ulteriormente delineato in senso ampliativo gli ambiti di operatività del divieto, dichiarando il divieto in esame costituzionalmente illegittimo, con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., «ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate»; precisando, altresì, che sarebbe irragionevole e, nel contempo, immediatamente lesivo del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, ritenere che la testimonianza de relato possa essere utilizzata qualora si riferisca a dichiarazioni rese con modalità non rispettose delle disposizioni degli artt.351 e 357, comma 2, lett. a) e b), pur sussistendo le condizioni per la loro applicazione, mentre non lo sia qualora la dichiarazione sia stata ritualmente assunta e verbalizzata. Si finirebbe, infatti, per dare rilievo processuale – anche decisivo – ad atti processuali compiuti eludendo obblighi di legge, mentre sarebbero in parte inutilizzabili quelli posti in essere rispettandoli (per l’applicazione del principio in sede di legittimità: Sez. 6, n. 13465 del 17/03/2010, Giugno, Rv. 24673801; Sez. 1, n.16215 del 30/01/2008, Taddeo, Rv. 23949801).
7.4. La giurisprudenza di legittimità, in generale con riguardo al divieto di testimonianza de relato, aveva peraltro già avuto modo di escludere la possibilità di richiamare tramite testimonianza indiretta le dichiarazioni rese in corso di indagine dai prossimi congiunti che si fossero poi astenuti dal deporre in dibattimento (Sez. 1, n.330 del 27/11/2001, dep.2002, Tozzi, Rv. 22046101; Sez. 1, n.6294 del 29/03/1999, Femia, Rv. 21346401), così come anche le dichiarazioni rese in riferimento a persone che non fossero testi già citati o, qualora fossero tali, non fossero già state sentite su ciò che forma oggetto della testimonianza indiretta (Sez.l, n.23161 del 16/05/2002, Calabro, Rv. 22150001). Quanto, invece, ai casi nei quali non opera il divieto, si sono ritenute utilizzabili le testimonianze della polizia giudiziaria in merito all’attività d’indagine svolta da altri inquirenti (Sez.2, n.36286 del 21/09/2010, Miele, Rv. 24853601; Sez. F, n.34180 del 18/08/2009, Er, Rv.24537501), ovvero a proposito delle dichiarazioni rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza caratterizzata dall’assenza di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità (Sez.1, n.5965 del 11/12/2008, dep.2009, Manco, Rv.24334701); la testimonianza sul contenuto dichiarativo di un documento extraprocessuale, come quella del privato partecipe ad un colloquio telefonico sulla registrazione fonografica dello stesso colloquio telefonico ad opera del medesimo (Sez.6, n.31342 del 16/03/2011, Renzi, Rv.25053401) e cip anche quando la registrazione sia stata realizzata dal privato su suggerimento della polizia giudiziaria (Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009, Abis, Rv. 24325601), precisandosi che il divieto di testimonianza indiretta riguarda solamente documenti fonografici rappresentativi di sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria (e da queste clandestinamente registrate) da persone a conoscenza di circostanze utili ai fini delle indagini (Sez.U, n.36747 del 28/05/2003, Torcasio, Rv. 22546901); la testimonianza di operatori sulle «comunicazioni verbali» intercorse tra persone osservate nel corso di un’operazione di polizia (Sez. 6, n. 28109 del 16/04/2010, Cicchinelli, Rv.247772) nonché la testimonianza degli ufficiali o agenti di polizia di sicurezza in ordine alle dichiarazioni ricevute nell’esercizio della vigilanza sui sorvegliati speciali di P.S. (Sez. 1, n. 5596 del 11/01/2011, Beninati, Rv. 24979701).
7.5. Applicando al caso in esame il quadro di principi sopra delineato, deve ritenersi che le dichiarazioni rese dal teste C. in merito al ruolo di B.R. nei confronti dei lavoratori della G.E.M.A.R.C. non possano essere assimilate alle ipotesi nelle quali non opera il divieto posto dall’art.195, comma 4, cod.proc.pen., trattandosi di circostanze di fatto apprese dalla polizia giudiziaria in un contesto procedimentale, non inerenti alla descrizione dell’attività d’indagine in senso stretto. Quanto dichiarato da C. deve, dunque, essere qualificato in termini di dichiarazione raccolta da un agente di polizia giudiziaria ai sensi dell’art.351 cod. proc. pen., in relazione alla quale l’art.195, comma 4, cod. proc. pen. pone un espresso divieto di testimoniare in capo agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, determinando la relativa violazione un vizio di inutilizzabilità assoluta della prova, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art.l92 cod. proc. pen.
8. Quanto alla necessaria, conseguente «prova di resistenza» vale osservare quanto segue.
8.1. Dalla motivazione della sentenza impugnata si evince che il giudizio di colpevolezza si è basato sul «fatto storico delle direttive e dei comandi» impartiti ai lavoratori dall’imputato, ritenuto prova dell’esercizio di fatto di funzioni datoriali.
8.2. Il compendio istruttorio raccolto ed elaborato nel corso del processo è senza dubbio a carattere indiziario, poiché manca la fonte diretta che riferisca o riproduca la dinamica del fatto. Ne consegue che, ai fini di valutazione della prova, viene in rilievo il procedimento logico attraverso cui da talune premesse si afferma la esistenza di ulteriori fatti «alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, le cui sequenze e ricorrenza possono verificarsi secondo le regole di comune esperienza» (Sez. U Civili, n. 9961 del 13/11/1996, Rv. 50053501). In tema di processo indiziario il giudice di merito deve compiere una duplice operazione: dapprima gli è fatto obbligo di procedere alla valutazione dell’elemento a carattere indiziario singolarmente, per stabilire se presenti o meno il requisito della precisione e per constatarne l’attitudine dimostrativa, che per lo piu’ è in termini di mera possibilità; poi occorre addivenire ad un esame complessivo degli elementi (Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013, Knox, Rv. 25567701), onde appurare se i margini di ambiguità, inevitabilmente correlati a ciascuno (se non fossero presenti incertezze dimostrative si avrebbe riguardo a vere e proprie prove), possano essere superati «in una visione unitaria, così da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato, pur in assenza di una prova diretta di reità, sulla base di un complesso di dati che tra loro saldandosi senza vuoti e salti logici, conducano necessariamente a tale sbocco come esito strettamente consequenziale» (Sez. 1, n. 30448 del 09/06/2010, Rossi, Rv. 24838401; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 19123001).
8.3. Premessa l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da C., in quanto acquisite in violazione del divieto previsto dall’art.195, comma 4, cod. proc. pen., la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio agli effetti civili, posto che dalla motivazione si evince chiaramente che, ai fini della decisione, tali dichiarazioni siano state considerate determinanti e valutate quale grave indizio a carico dell’imputato.
8.4. Valuterà, dunque, altra Sezione della Corte di Appello di Roma se, espunte dette dichiarazioni, possa pervenirsi o meno all’affermazione di responsabilità dell’imputato (tra le altre, Sez. 4, n. 48515 del 17/09/2013, Alberti, Rv. 25809301; Sez. 5, n. 569 del 18/11/2003, dep.2004, Bonandrini, Rv. 22697201).
9. Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione, mentre dovrà essere annullata agli effetti civili per vizio di motivazione, con rinvio per nuovo giudizio a norma dell’art.622 cod.proc.pen. al giudice civile competente in grado di appello. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, a regolare le spese tra le parti relative a questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.: Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione.
Annulla la medesima sentenza agli effetti civili con rinvio per nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda la regolazione delle spese tra le parti per questo giudizio di cassazione.
FONTE: Cassazione
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