Cassazione Penale, n. 38203 – Responsabilità del datore di lavoro per non aver assicurato al dipendente una sufficiente ed adeguata formazione
Fatto:
l. Con sentenza in data 7.6.2016 il Tribunale di Gorizia, a seguito di giudizio abbreviato, ha condannato F.B. alla pena di € 3.200 di ammenda ritenendolo responsabile del reato di cui all’art. 37 d. lgs. 81/2008 per non avere assicurato, in qualità di datore di lavoro, sufficiente ed adeguata formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro ad un proprio dipendente. Avverso la suddetta sentenza l’imputato ha proposto appello innanzi la Corte d’Appello di Trieste che attesa l’inappellabilità delle sentenza di condanna alla pena pecuniaria dell’ammenda e la voluntas impugnationis, ha disposto la trasmissione degli atti innanzi a questa Corte. L’imputato ha articolato quattro motivi.
Con il primo motivo contesta la qualifica di dipendente addetto alla manovalanza apoditticamente assunta dal Tribunale in relazione al rapporto di lavoro tra B.K. e la Essebi Impianti, sulla base di un dato del tutto neutro quale il fatto che al momento dell’accesso stesse svolgendo attività analoghe a quelle di dipendente della società, senza alcuna indicazione delle ragioni assunte a fondamento della conclusione raggiunta.
2. Con il secondo motivo deduce la nullità del decreto penale di condanna in quanto mancante della sanzione correlata al precetto, con conseguente violazione del proprio diritto di difesa essendogli stato precluso di verificare se la sua condotta configurava un’ipotesi di reato e se si stava procedendo nei suoi confronti per un delitto o una contravvenzione essendosi la Corte Suprema espressa in tali termini in ipotesi analoga concernente una contestazione formulata con il mero richiamo per relationem ad atti diversi da altro provvedimento giudiziario.
3. Con il terzo motivo lamenta la mancata indicazione nella parte motiva della sentenza impugnata della norma sanzionatoria in forza della quale ha condannato l’imputato alla pena dell’ammenda.
4. Con il quarto motivo deduce la violazione dell’art. 426 lett. f) c.p.p. per mancata indicazione nel dispositivo della sentenza impugnata degli articoli di legge in base al quale l’imputato è stato condannato.
Diritto:
1. Il primo motivo relativo alla censura del rapporto di lavoro dipendente affermato dalla sentenza impugnata tra il dipendente e la società di cui l’imputato è amministratore, si sostanzia in una contestazione di natura meramente fattuale il cui sindacato sfugge al sindacato di questa Corte, posto che la sua valutazione presupporrebbe lo svolgimento di un accertamento di merito incompatibile in sede di legittimità. Va infatti ribadito che l’istituto della conversione della impugnazione previsto dall’art. 568, comma 5, cod.proc.pen., ispirato al principio di conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione, correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta in quanto il principio di conservazione del mezzo di impugnazione non può in nessun caso consentire deroghe alle norme che formalmente e sostanzialmente regolano i diversi tipi di impugnazione (ex multis Sez. 1, n. 2846 del 08/04/1999 – dep. 09/07/1999, Annibaldi R, Rv. 213835). Così ridelineato il perimetro del sindacato di legittimità riservato a questa Corte, va rilevato che in tanto può trovare ingresso il vizio motivazionale in quanto sia diretto ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, che deve non solo essere identificabile come illogicità manifesta della motivazione o come omissione argomentativa, intesa sia quale mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia quale carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato, ma essere altresì decisivo, ovverosia idoneo ad incidere sul compendio indiziario così da incrinarne la capacità dimostrativa (Cass. Sez. U. n.6402 del 30.4.1997, Dessimone, Rv 207944, Cass. Sez. 2A n.30918 del 07/05/2015, Falbo, Rv. 264441, Cass., sez. 1A, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507, Cass., Sez.4A n.4842 del 2.12.2003, Elia, Rv 229369,). Ciò posto del tutto logico e coerente risulta il percorso argomentativo seguito dal Tribunale che nell’evidenziare, in aderenza alle emergenze processuali costituite dal verbale di accertamento, che il B.K. svolgeva attività di mera manovalanza al pari degli altri dipendenti della società, che si avvaleva della strumentazione e delle attrezzature di quest’ultima, che era sottoposto alle direttive del capo cantiere, che in caso di impedimento o assenza doveva avvertire il datore di lavoro e che non aveva accesso autonomo al luogo di lavoro, ha consequenzialmente escluso che si trattasse di lavoratore autonomo, in conformità alle stesse linee interpretative richiamate dal ricorrente che secondo l’elaborazione della giurisprudenza giusvaloristica individuano nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro la caratteristica saliente del rapporto di lavoro subordinato.
2. Il secondo motivo, con il quale si assume che la mancata indicazione nel decreto penale di condanna delle norme di legge violate sia causa di nullità, deve ritenersi manifestamente infondato.
Riallacciandosi all’interpretazione univocamente seguita da questa Corte secondo la quale, in tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa” (Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Russo, Rv. 258920; Sez. 3, n. 22434 del 19/02/2013 – dep. 24/05/2013, Nappello, Rv. 255772; Sez. 3 n.89715/2015 non massimata), deve ritenersi che siffatto principio debba trovare a fortiori applicazione quando il fatto contestato, ivi compresa l’indicazione delle norme violate, è comunque desumibile, in ragione della peculiare normativa che caratterizza le contestazioni in materia di sicurezza del lavoro, dalla preventiva contestazione all’interessato della specifica violazione consacrata nel verbale redatta dall’Ispettore per porlo in condizione di provvedere alla propria difesa e di troncare, quando sia consentito, l’esercizio dell’azione penale mediante oblazione. Dal momento che, secondo l’univoca interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, per “fatto contestato” si intende il complesso degli elementi di fatto portati a conoscenza dell’imputato nel corso del processo e sui quali egli deve difendersi, i quali risultano non soltanto da quelli che hanno la specifica funzione di segnare i termini dell’accusa, ma anche da tutti gli altri atti che siano idonei ad avvertire l’imputato dei termini della contestazione, onde sia in grado di provvedere alla propria difesa, del tutto improduttiva di effetti deve ritenersi a fronte della corretta e puntuale descrizione del fatto, la mancata indicazione delle norme di legge violate.
3. Manifestamente infondati sono il terzo ed il quarto motivo afferenti a pretese violazioni dell’art.426 c.p.p.. Mentre nessuna rilevanza assume, considerato che l’obbligo generale della motivazione, imposto dall’art. 426 lett.e) cod. proc. pen., è limitato alla esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, la mancata indicazione nel corpo della sentenza della norma in forza della quale è stata applicata la pena, la quale si evince puntualmente dal capo di imputazione, costituente parte integrante del provvedimento, deve del pari rilevarsi che l’indicazione degli articoli di legge da menzionarsi nel dispositivo riguardano la tipologia di pronuncia e non certo le norme di legge violate.
Il ricorso deve in definitiva essere dichiarato inammissibile, seguendo a tale esito la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.: Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende Così deciso il 27.4.2017
FONTE: Cassazione Penale