Cassazione Penale – Visita dei Carabinieri nel cantiere edile. Ai fini della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, quando si parla di rapporto di lavoro subordinato?
Fatto:
1. Il sig. V.C. ricorre per l’annullamento della sentenza del 10/10/2016 del Tribunale di Ferrara che lo ha condannato alla pena di 3.500,00 euro di ammenda per il reato continuato di cui agli arti. 81, cpv., cod. pen., 18, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 81 del 2008 (capo A), 37, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008 (capo B), 36, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008 (capo C), a lui ascritto perché, quale legale rappresentante della società <<V.A.L. Costruzioni di V.C.>>, esercente attività edile ed impegnata in lavori di sistemazione muraria di un fabbricato adibito ad abitazione civile, aveva tollerato e comunque non impedito che operasse in cantiere il lavoratore I.E. senza aver prima effettuato l’accertamento sanitario preventivo attestante la sua idoneità alla mansione svolta, senza avergli assicurato, prima dell’inizio dei lavori, una formazione adeguata e sufficiente in materia di sicurezza del lavoro e salute e senza averlo informato sui rischi specifici correlati all’uso di sostanze pericolose, sulle misure di protezione e prevenzione da adottare (avuto riguardo anche alle sue conoscenze linguistiche). Il fatto è contestato come commesso in Ferrara il 03/10/2012.
1.1. Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione mancante e manifestamente illogica nella parte in cui ha ritenuto, senza spiegarne le ragioni, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sol perché lo I.E. era impegnato nella rimozione di alcuni calcinacci, non considerando che questi si era solo sentito in dovere morale di aiutare l’imputato che lo aveva condotto in cantiere nella prospettiva (poi non attuata) di coinvolgerlo nei lavori.
1.2. Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà della motivazione con specifici atti del processo (in particolare il proprio esame) e deduce, al riguardo, che il Tribunale ha male interpretato le sue parole allorquando ha affermato che i lavori da svolgere sul cantiere erano lavori da fabbro, non volendo con ciò affermare né che l’I.E. (lavoratore edile) fosse davvero un fabbro né che fosse stato invitato ad effettuare il sopralluogo quando già se ne conosceva l’inutilità. Non si fonda perciò su una corretta valutazione della prova la censura della contraddittorietà delle dichiarazioni dell’imputato che invece aveva giustificato la presenza dell’I.E. proprio sul rilievo che, dovendo mettere in sicurezza l’edificio, non sapeva bene quali lavori fossero necessari.
1.3. Con il terzo motivo, che riprende, sotto altro profilo, il tema del primo, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione mancante e manifestamente illogica in ordine alla sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, irragionevolmente desunto dal fatto che lo I.E. era impegnato in attività (la rimozione di calcinacci) non indicative della subordinazione e che possono essere effettuate anche da un artigiano edile. La sussistenza del rapporto di lavoro subordinato è inoltre contraddetta, vista la sua tendenziale durata nel tempo, dal fatto che dopo l’accesso ispettivo del 03/10/2012 lo I.E. non fu trovato più nel cantiere.
1.4. Con il quarto motivo, che sviluppa ulteriormente i temi sviluppati con il terzo, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione mancante e manifestamente illogica in ordine al rigetto della deduzione difensiva della sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo con l’I.E., rigetto fondato sul rilievo che tale rapporto non era stato comunicato al committente, che l’I.E. non aveva rilasciato alcuna fattura, che l’imputato aveva inizialmente comunicato che avrebbe proceduto con le proprie maestranze.
1.5. Con il quinto motivo eccepisce, ai sensi dell’alt. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione mancante e contraddittoria in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla applicazione della pena in misura superiore al minimo edittale. Ferma la natura apodittica della motivazione, deduce, in aggiunta, che egli non ha mai negato che l’I.E. avesse portato via due/tre secchi, sicché il Tribunale travisa il suo esame quando afferma che l’imputato non aveva ammesso gli addebiti.
1.6. Con il sesto motivo, deducendo che risulta dagli atti che l’impresa è cessata il 14/04/2014, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di motivazione mancante, manifestamente illogica e contraddittoria in ordine alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
1.7. Con il settimo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., vizio di omessa motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione del certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati.
Diritto: 2. Il ricorso è fondato limitatamente all’ultimo motivo; è inammissibile nel resto perché generico e manifestamente infondato.
3. Con riferimento ai primi quattro motivi di ricorso, ricorda la Corte che: a) l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “Ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794); b) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621), sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903); c) il travisamento della prova è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo, o un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
3.1. Ne consegue che: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova solo quando se ne denunci il travisamento, purché di travisamento effettivamente di tratti, e l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli.
3.2.Orbene, dal testo della motivazione della sentenza impugnata risulta che:
3.2.1. nel corso di un accesso effettuato il 03/10/2012 presso il cantiere edile dell’Imputato, i Carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro di Ferrara avevano riscontrato la presenza dell’imputato stesso e di altre due persone intente a rimuovere materiali inerti nell’ambito di lavori di messa in sicurezza di un fabbricato condominiale;
3.2.2. di queste due persone, entrambe di nazionalità rumena, tal B.M. non era titolare di una propria impresa artigiana, né era dipendente di imprese terze (per lui, infatti, l’imputato ha pagato la sanzione amministrativa dopo averlo assunto, formato ed informato);
3.2.3. Lo I.E., pur titolare di impresa artigiana, non stava utilizzando mezzi o strumenti di lavoro propri e non era intestatario di veicoli propri normalmente necessari per lo svolgimento dei lavori edili;
3.2.4.l’imputato aveva dichiarato che la sua presenza era dovuta al fatto che aveva pensato di coinvolgerlo nei lavori e che tuttavia, siccome si era deciso che non si poteva far nulla perché svolgeva solo “lavori da fabbro” e poiché l’amministratore del condominio aveva chiesto di liberare subito l’area dai calcinacci, lo I.E. era stato momentaneamente coinvolto in tale attività;
3.2.5.l’amministratore, però, sentito dalla PG aveva negato di aver mai chiesto all’imputato di liberare il cantiere dai calcinacci;
3.2.6.l’impresa dell’imputato, subappaltatrice dei lavori appaltati all’impresa del figlio, non aveva dipendenti, né l’aveva quella del figlio stesso, sicché non si comprende in che modo egli avrebbe potuto far fronte a lavori edili che lo stesso imputato ha affermato essere lunghi e difficili;
3.2.7.la successiva assunzione del B.M., poi licenziato, prova il disegno originario di fare ricorso alla manovalanza in nero facendo ricorso anche a lavoratori titolari di partita IVA;
3.2.8.anche a voler assecondare la tesi difensiva, l’imputato non aveva informato il committente, quantomeno al fine di predisporre un piano di coordinamento tra le imprese, non è stato stipulato alcun contratto scritto, né alcun piano, lo stesso amministratore del condominio non solo non era stato informato di nulla ma sapeva che l’imputato avrebbe fatto fronte ai lavori con proprie maestranze;
3.2.9. l’I.E. non aveva mai emesso alcuna fattura nei confronti dell’imputato, bensì di un altro committente che, sentito come testimone, non aveva prodotto la fattura (mai prodotta in giudizio peraltro); in un altro caso, pur avendo lavorato per conto dell’imputato, aveva emesso fattura che era stata consegnata al committente dall’imputato stesso, ciò a comprova del fatto (afferma il tribunale) che l’imputato usa coinvolgere nominalmente altre ditte che lavorano alle sue dipendenze ma che non hanno alcun contatto con i committenti.
3.3. Tanto premesso, osserva in primo luogo la Corte che l’imputato non prende posizione affatto, né considera tutti gli argomenti utilizzati dal Tribunale per affermare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, tra questi, in primo luogo, la considerazione, francamente decisiva, che la sua impresa non aveva lavoratori dipendenti per far fronte ad un lavoro incontestabilmente complesso, laddove all’amministratore del condominio aveva affermato che avrebbe provveduto con maestranze proprie. Nè considera gli argomenti utilizzati dal Tribunale per sostenere che l’imputato usava ricorrere al lavoro nero mediante lavoratori (formalmente) autonomi, soggetti passivi IVA, né il fatto che l’amministratore del condominio aveva negato di avergli chiesto di rimuovere i calcinacci.
3.4.Il che, oltre a rendere generico il ricorso, priva di decisività l’eccepito vizio di travisamento della prova posto che se è vero che l’imputato non ha mai sostenuto che lo I.E. svolgeva solo lavori da fabbro, ciò non assume nell’economia della motivazione un peso tale da scardinare il ragionamento del Giudice. Così come non è decisiva la circostanza che lo I.E. non aveva emesso fattura perché, secondo l’imputato, non aveva dato corso ad alcun lavoro.
3.5.Deve essere evidenziato, infatti, che l’insieme delle circostanze indicate dal Tribunale rende non manifestamente illogica la conclusione che ne è stata tratta circa l’esistenza di un “modus operandi” dell’imputato che si avvale nell’esercizio d’impresa di personale non assunto e che trova nella totale assenza di manovalanza propria, nella assenza di beni strumentali dello I.E., nell’affermazione (menzognera) resa all’amministratore del condominio di lavorare con propri dipendenti, significativi elementi di riscontro circa il fatto che le mansioni svolte dallo I.E. fossero riconducibili ad un rapporto di lavoro che ben avrebbe potuto iniziare lo stesso giorno dell’accertamento ispettivo.
3.6.Occorre peraltro ricordare che già prima della entrata In vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, la Corte aveva affermato il principio che ai fini della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, un rapporto di lavoro subordinato deve essere considerato tale in riferimento all’assenza di autonomia del lavoratore nella prestazione dell’attività lavorativa e non già in relazione alla qualifica formale assunta dal medesimo (Sez. 4, n. 12348 del 29/01/2008, Giorgi, Rv. 239251, che ha affermato il principio in un caso in cui il lavoratore, pur formalmente titolare di una ditta artigiana, prestava in assenza di autonomia la propria attività, ricevendo ordini dal datore di lavoro, del quale utilizzava le attrezzature, Il mezzo di trasporto ed il materiale) e che sono considerati lavoratori subordinati tutti coloro che, indipendentemente dalla continuità e dall’onerosità del rapporto prestano la loro attività fuori del proprio domicilio alle dipendenze e sotto la direzione altrui (Sez. 4, n. 267 del 28/06/1988, Anorini, Rv. 180135), anche se l’attività è prestata a mero titolo di favore (Sez. 4, n. 2232 del 27/11/1981, Colapinto, Rv. 152593).
3.7. La definizione di “lavoratore” fornita dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008, fa leva sullo svolgimento dell’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale ed è definizione più ampia di quelle che l’hanno preceduta, che facevano riferimento, invece, al “lavoratore subordinato” (art. 3, d.P.R. n. 547 del 1955) e alla “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro” (art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 626 del 1994).
3.8.Sicché, a prescindere dal fatto che un “lavoratore” possa essere titolare o meno di un’impresa artigiana ovvero essere un lavoratore autonomo, quel che conta, ai fini dell’applicazione delle norme incriminatrici in questione, è che egli oggettivamente disimpegni mansioni lavorative tipiche dell’impresa (non importa se a titolo di favore) nel luogo di lavoro deputato (nel caso di specie un cantiere) e su richiesta dell’imprenditore. Per cui stabilire se lo I.E. fosse un lavoratore autonomo o dipendente non ha rilevanza, non nei termini proposti dall’imputato; quel che rileva è che egli sia stato impiegato nei lavori d’impresa esercitando mansioni tipiche del lavoratore dipendente e con strumenti messi a disposizione dell’imprenditore, nel cantiere ove operava l’impresa stessa.
4. Quanto al trattamento sanzionatorio osserva preliminarmente il Collegio che:
4.1. gli indici di commisurazione della pena di cui all’art. 133, cod. pen., forniscono al giudice l’armamentario per forgiare la condanna sulla persona dell’imputato in considerazione della finalità rieducativa della pena stessa;
4.2.la centralità e l’importanza della sua quantificazione è stata più volte sottolineata dal Giudice delle leggi che ha ribadito che <<il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena forma oggetto, nell’ambito del sistema penale, di un principio di livello costituzionale>> rimarcando che la finalità rieducativa della pena stessa non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisce «una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze n. 129 del 2008, n. 257 del 2006, n. 341 del 1994)>> (sentenza n. 183 del 10/06/2011);
4.3.la quantificazione della pena, dunque, non può essere frutto di scelte immotivate né arbitrarie, ma nemmeno di valutazioni esasperatamente analitiche;
4.4. quel che conta, in ultima analisi, è che dell’uso del potere discrezionale il giudice dia conto rendendo noti gli elementi che lo giustificano (art. 132, cod. pen.);
4.5. a tal fine risulta insuperato l’insegnamento di Sez. U, n. 5519 del 21/04/1979, Pelosi, Rv. 142252, secondo cui è da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art 133 cod. pen., ritenuto prevalente e di dominante rilievo, non essendo tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi (così, in motivazione, anche Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo; si veda anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, La Selva);
4.6. quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente quali, tra i criteri, oggettivi o soggettivi, enunciati dall’art. 133 c.p., siano stati ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio, dovendosi perciò escludere che sia sufficiente il ricorso a mere clausole di stile, quali il generico richiamo alla “entità del fatto” e alla “personalità dell’imputato (così, in motivazione, Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo; cfr. anche Sez. 1, n. 2413 del 13/03/2013, Pachiarotti; Sez. 6, n. 2925 del 18/11/1999, Baragiani);
4.7. è consentito far ricorso esclusivo a tali clausole, così come a espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, solo quando il giudice non si discosti molto dai minimi edittali (Sez. 1, n. 1059 del 14/02/1997, Gagliano; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri) oppure quando, in caso di pene alternative, applichi la sanzione pecuniaria, ancorché nel suo massimo edittale (Sez. 1, n. 40176 del 01/10/2009, Russo; Sez. 1, n. 3632 del 17/01/1995, Capelluto);
4.8. al di fuori di questi casi, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale non può insomma essere affidato alla intuizione del giudice, con riferimento a generiche formule di stile o sommari richiami al parametro contenuto nell’art. 133 cod. pen. se è pur vero che non è richiesto l’analitico esame in rapporto a ogni elemento del complesso parametro richiamato, resta tuttavia la doverosità della specifica individuazione delle ragioni determinanti la misura della pena, al fine di dar conto dello uso corretto del potere discrezionale che al giudice di merito è affidato, e di garantire l’imputato della congruità della pena inflitta (Sez. 1, n. 12364 del 02/07/1990, Italiano, Rv. 185320; cfr. anche Sez. 1, n. 5210 del 14/01/1987, Cardile, Rv. 175802, che ha ricordato come nell’irrogazione di una pena, relativa ad un reato circostanziato, analogamente a quanto previsto per un reato semplice, il giudice adempie all’obbligo di motivazione solo allorché indica in modo specifico i motivi che giustificano l’uso del suo potere discrezionale al riguardo e non già adoperando delle formule stereotipate. Infatti, l’obbligo della motivazione, predisposto dalla legge, è generale, in quanto vale per tutti i provvedimenti per i quali la legge lo prescrive; indisponibile perché deve essere adempiuto unicamente dall’autore del provvedimento; destinato ad essere pubblicizzato e completo, nel senso che deve essere quantitativamente correlato al dispositivo, con l’effetto che in assenza di queste caratteristiche non può dirsi compiutamente adempiuto);
4.9.la concessione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce oggetto di un diritto con il cui mancato riconoscimento il giudice di merito si deve misurare poiché, non diversamente da quelle “tipizzate”, la loro attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti;
4.10.il loro mancato riconoscimento può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini, Rv. 260610; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/2013, Stentano, Rv. 195339);
4.11.nel motivare il diniego, inoltre, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
5. Nel caso di specie, il Tribunale ha individuato il reato più grave in quello di cui al capo C (punito ai sensi dell’art. 55, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 81 del 2008 con pena pecuniaria alternativa a quella detentiva) ed ha applicato una pena pecuniaria inferiore alla metà del massimo edittale, ritenuta congrua ai sensi dell’art. 133, cod. pen.. Ha inoltre negato le circostanze generiche in considerazione del comportamento doloso, della sua abitualità e del comportamento processuale dell’imputato, votato alle negazione dell’evidenza. Per le stesse ragioni ha effettuato un giudizio prognostico negativo ai fini della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
5.1. La quantificazione della pena concretamente inflitta sfugge, per le ragioni sopra indicate, alle censure di questa Corte; allo stesso modo è insindacabile la negata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Al riguardo non sussiste alcun travisamento della prova posto che la mancata ammissione dell’evidenza non si riferisce al fatto che l’imputato avesse riconosciuto che lo I.E. stesse portando via dei detriti, quanto alla riconducibilità di tale mansione ad un rapporto di lavoro. In ogni caso l’eccezione non è decisiva, considerate le altre ragioni (non contestate) del diniego.
5.2. L’eccezione relativa alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere supportata dalla mera deduzione di aver prodotto un documento ignorato dal Tribunale, essendo preciso onere dell’imputato, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, allegare il documento in questione e il verbale di udienza nel quale si dà atto della sua produzione (ovvero indicare il verbale di udienza e l’affoliazione del documento), altrimenti la deduzione ha natura fattuale.
5.3. Nel resto il giudizio prognostico negativo, poiché non è frutto di una valutazione non manifestamente illogica è incensurabile in questa sede.
6. E’ invece fondato l’ultimo motivo di ricorso.
6.1.Secondo l’insegnamento della Corte il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è diverso da quello della sospensione condizionale della pena perché, mentre quest’ultima ha l’obiettivo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e di costituire, attraverso la possibilità di revoca, un’efficace remora ad ulteriori violazioni della legge penale, il primo persegue lo scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l’eliminazione della pubblicità quale particolare conseguenza negativa del reato, sicché non è contraddittorio il diniego di uno dei due benefici e la concessione dell’altro (così, da ultimo, Sez. 6, n. 34489 del 14/06/2012, Del Gatto, Rv. 253484; Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251509; Sez. 1, n. 45756 del 14/11/2007, Della Corte, Rv. 238137).
6.2. Ne consegue che, stante la diversità dei presupposti, le ragioni del diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena non assorbono quelle relative al mancato riconoscimento dei beneficio della non menzione, sicché l’omissione, sul punto, resta patologica.
6.3. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al beneficio della non menzione del certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta dei privati con rinvio al Tribunale di Ferrara per esame sul punto.
6.4. Nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente affermazione irrevocabile della responsabilità dell’imputato e della pena (non sospesa) applicata.
P.Q.M.:
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla concedibilità del beneficio della non menzione e rinvia al Tribunale di Ferrara.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15/03/2017.
FONTE: Cassazione Penale
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