Cassazione Penale, Sez. 4, 11/11/2016, n. 47834 – Lavoratore precipita in un’apertura della tettoia. Ruolo e responsabilità dei Coordinatori per l’Esecuzione
Fatto: 1. Il 29 gennaio 2015 la Corte di appello di Torino ha confermato, per quanto in questa sede rileva, la sentenza di condanna che era stata pronunziata dal Tribunale di Torino il 17 maggio 2012 nei confronti dell’architetto G.P. e del geometra S.B., entrambi nella veste di coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva per il cantiere della Esselunga in Rivalta di Torino, per il reato di lesioni colpose gravi in danno di S.M.DR., fatto contestato come commesso il 29 maggio 2009 con violazione della disciplina anti-infortunistica.
2. Una breve sintesi delle informazioni essenziali che si traggono dalle sentenze di merito per inquadrare le problematiche giuridiche del caso.
All’origine del presente processo vi è l’infortunio sul lavoro occorso, il 29 maggio 2009, a S.M.DR., operaio dipendente della s.r.l. TMC (di cui era amministratore delegato A.M.), società subappaltatrice dei lavori di posa dei lucernari e di impermeabilizzazione della tettoia di carico e scarico merci del complesso immobiliare commerciale Esselunga di Rivalta di Torino, la cui realizzazione era stata affidata dalla ditta Icea Coop a r.l. alla ditta F.Ili Ar. s.p.a., con successivo sub-appalto di parte dei lavori a circa dieci ditte, tra le quali, appunto, la TMC di A.M..
Sul cantiere, in conseguenza della necessaria intersecazione dei vari segmenti di attività lavorative, si trovavano contemporaneamente impegnati lavoratori dipendenti di varie ditte.
L’infortunio occorso a S.M.DR. si è pacificamente verificato allorquando il lavoratore, che era sul tetto del capannone e che stava spostando pacchi di pannelli fono-isolanti servendosi di un carrello, procedendo a ritroso, giunto in prossimità di una delle aperture presenti sulla tettoia ed in quel momento non protette in alcun modo, non si avvide dell’apertura, urtò contro il cordolo e precipitò all’interno della cavità per circa sei metri, riportando plurime e gravi fratture causative di una malattia durata più di un anno, oltre a significativi postumi permanenti.
Entrambe le sentenze di merito hanno riconosciuto la sussistenza della penale responsabilità del datore di lavoro dell’infortunato (A.M.), dei legali rappresentanti delle ditte appaltatrice ed affidataria principale soc. a r. l. Icea Coop. (M.A.) ed appaltatrice e sub-affidataria F.Ili Ar.s. p.a. (A.Ar.) e dei coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva per il cantiere della Esselunga in Rivalta di Torino, senza distinzione tra loro di ruoli o di compiti, arch. G.P. e geom. S.B., odierni ricorrenti.
Va precisato, per completezza espositiva, che, benché il capo di accusa elevato dal P.M. contesti all’arch. G.P. anche la qualifica di responsabile dei lavori per il cantiere Esselunga in Rivalta di Torino, il giudice di primo grado ha motivatamente escluso (p. 7 della sentenza del Tribunale), senza alcuna riforma sullo specifico punto in appello, la ricorrenza di tale qualifica, in quanto all’epoca dell’infortunio essa era, già da circa un anno, attribuita a diverso soggetto.
Consegue che sia G.P. sia S.B. sono chiamati a rispondere del reato di lesioni colpose in qualità di coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva. Ai due imputati si addebita, infatti, nella parte del (più ampio) capo di accusa che li riguarda, di non avere assicurato l’attuazione, nella concreta applicazione del piano di sicurezza e coordinamento in fase esecutiva (acronimo: P.S.C.E.) tra le imprese esecutrici dei lavori, di idonea precauzione in relazione – quanto al rischio di caduta dall’alto – al transito in prossimità di aperture profonde circa 6 metri, poste sulla tettoia da impermeabilizzare, alcune delle quali erano prive di apprestamenti anticaduta quali parapetti, tavole fermapiede, tavole calpestagli, grigliati o altri convenienti sbarramenti, misure (quali i parapetti o le recinzioni) che pure erano state previste dal piano di sicurezza e coordinamento in fase esecutiva proprio in riferimento alla presenza di aperture nei solai e nelle coperture.
3. La responsabilità dell’arch. G.P. e del geom. S.B. era stata affermata dal Tribunale nei termini che di seguito si riferiscono.
Ha ritenuto il giudice di primo grado, sul – pacifico – presupposto di fatto che le aperture presenti sulla copertura ove erano in corso i lavori fossero prive di disposizioni di protezione collettiva (acronimo: D.P.C.) di tipo “verticale”, quali ad esempio parapetti o ringhiere, o di tipo “orizzontale”, quali coperture con tavolati o griglie o reti, che siano state violate durante l’esecuzione dei lavori le disposizioni previste dal piano di sicurezza e coordinamento (acronimo: P.S.C.) e dal piano operativo di sicurezza (acronimo: P.O.S.) che stabilivano (in conformità agli artt. 146, comma 1, 111, comma 1, e 100, comma 3, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) che fosse da accordare assoluta prevalenza ai dispositivi di protezione collettiva, potendosi fare ricorso a quelli di protezione individuale solo in via residuale, in caso di impossibilità di ricorso a quelli di tipo collettivo e per periodi di tempo limitatissimi. In particolare, risulterebbe violato l’art. 74 del piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.), che contemplava espressamente il ricorso a meccanismi di tipo orizzontale, quali tavoloni o impalcati, a protezione delle aperture, quale possibile alternativa alle barriere perimetrali, stabilendo altresì che tali dispositivi di protezione collettiva dovessero rimanere in opera sino al completamento dell’intervento.
Si è ritenuto altrettanto pacifico che sul cantiere fossero presenti due dispositivi di sicurezza individuale idonei a trattenere il lavoratore in caso di precipitazione, cioè due funi lunghe l’una 10 metri e l’altra 6,2 metri con relative cinture di sicurezza, da collegare a funi tese con agganci.
La responsabilità degli imputati è stata ritenuta discendere dall’avere omesso di vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano operativo di sicurezza (P.O.S.) e del piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.), in quanto si era accertato che, per almeno due-tre giorni, i lavori sulla copertura erano andati avanti in assenza dei dispositivi di protezione collettiva pur prescritti, appunto, dal P.O.S. e dal P.S.C., senza che alcuna contestazione fosse mossa dai coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva al datore di lavoro, essendo la società TMC di A.M. subentrata nel cantiere dopo che la ditta T. aveva rimosso i parapetti che in precedenza erano stati posti: ed è a questo punto che i coordinatori, proprio in coincidenza con l’avvicendarsi tra le due ditte, avrebbero dovuto vigilare affinché venisse apprestato un cantiere sicuro per i lavoratori, mentre nessun controllo era stato effettuato.
A riprova ulteriore della omissione, si è sottolineato in particolare nella sentenza di primo grado che risulta documentalmente che i due coordinatori in data 18 maggio 2009 (l’infortunio per cui è processo si è verificato il 29 maggio 2009) avevano verificato che i parapetti che aveva installato la T. non erano montati in maniera idonea, mancando la tavola fermapiede (prescritta dall’art. 146, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008), in conseguenza disponendo la sospensione dei lavori per il tempo necessario alla regolarizzazione.
Inoltre, sul cantiere non erano presenti cartelli che segnalassero i pericoli di cadute e la necessità di utilizzare i dispositivi di protezione individuale.
4. La Corte di appello di Torino ha disatteso i plurimi motivi di doglianza avanzati con l’appello (anche) dagli imputati G.P. e S.B. svolgendo le seguenti considerazioni (pp. 7-15 della sentenza di secondo grado).
4.1. Quanto ad un primo blocco di argomenti difensivi, incentrati sulle circostanze che il piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.) avrebbe previsto un unico dispositivo di protezione collettiva, rappresentato dal parapetto “alla francese”, e che nessuna traccia vi sarebbe nel documento in questione di grigliati o di tavolati a protezione delle aperture, ed inoltre che, conformemente alle previsioni del P.S.C., l’ultima fase delle opere di impermeabilizzazione di competenza della TMC, di cui era dipendente il lavoratore infortunato, doveva avvenire mediante l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, cioè imbracatura, arrotolatore, linea vita, oggetti che erano in effetti disponibili, posto che i parapetti avrebbero ostacolato l’operazione di risvolto della guaina sui bordi delle aperture, il giudice di secondo grado ha svolto considerazioni che di seguito si riferiscono.
4.1.1. Premette la Corte di appello che l’art. 111 del d.lgs. n. 81 del 2008 stabilisce il fondamentale principio che va accordata preferenza alle misure di protezione collettiva rispetto a quelle di tipo individuale, in quanto le prime prescindono dall’attuazione e dalla volontà del singolo lavoratore: consegue che a questo cardine del sistema della prevenzione va ispirata la valutazione del rischio di caduta dall’alto in sede di redazione di piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.) e di piano operativo di sicurezza (P.O.S.) (art. 100 d.lgs. n. 81 del 2008) e che è in funzione di questi criteri che il coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva deve orientare l’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e di intervento nelle lavorazioni in quota (art. 92 d.lgs. n. 81 del 2008).
Ciò posto, sottolinea la Corte territoriale che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa nell’appello, il piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.), firmato da G.P. e S.B., ed il P.O.S., redatto da TMC, contengono specifici riferimenti alla necessità di utilizzo di dispositivi di protezione collettiva diversi dai semplici parapetti (p. 74 del P.S.C.). Infatti, se è pur vero che il P.S.C., a proposito delle “aperture nei solai e nelle coperture”, parla solo di “idonei parapetti” e specifica che nelle fasi transitorie l’accesso alle aree con pericolo di caduta dall’alto saranno, in linea di massima, interdetti alle maestranze, mentre quelle impiegate nella specifica lavorazione dovranno essere assicurate mediante idonei dispositivi di protezione individuale ad una linea di ancoraggio fissata alla struttura dell’edificio (p. 51 del P.S.C.), tuttavia il P.S.C. in altra e successiva parte, e proprio con specifico riferimento alle opere di impermeabilizzazione delle coperture, prescrive, in modo stringente, che “prima di iniziare qualsiasi lavorazione su solai e coperture devono essere prese alcune precauzioni, tra le quali […] le eventuali aperture lasciate nelle coperture per la creazione di lucernari o altro devono essere protette con barriere perimetrali o coperte con tavoloni o provviste di impalcato o reti sottostanti” (p. 74 del P.S.C.).
Rileva poi che, analogamente, il P.O.S. redatto dalla ditta TMC ribadisce la residualità delle misure individuali rispetto a quelle collettive, tra le quali nomina non soltanto i dispositivi verticali, atti a prevenire, per così dire “a monte”, la caduta, ma anche quelli “orizzontali”, idonei ad arrestare, per così dire, “a valle”, la caduta del lavoratore già in corso, quali impalcati o reti di protezione, specificamente definiti “superfici di arresto costituire da tavole in legno o materiali semirigidi, reti di arresto molto deformabili”; dispositivi seguiti (non preceduti) nell’elencazione della previsione scritta da “dispositivi di protezione individuali di trattenuta o di arresto” (pp. 21 e 30 del P.O.S.).
Ne trae la Corte di merito la conclusione che, in caso di impraticabilità, per singole fasi della lavorazione, dei parapetti, obbligo dei coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva, proprio alla stregua delle previsioni espresse di P.S.C. e P.O.S., correttamente redatti in conformità alla previsione di legge, era di vigilare, di prescrivere e di verificare, prima del ricorso, pur possibile ma, appunto, residuale, ai dispositivi di protezione individuale, la corretta messa in opera di altri dispositivi di protezione collettiva, anche di tipo orizzontale, quali impalcati o grigliati, ugualmente idonei a prevenire il rischio di precipitazione o a ridurne gli effetti e non tali (anche ammessa la impraticabilità dei parapetti verticali) da impedire o da ostacolare l’attività, sulla cui specificità molto insite la difesa, di risvolto della guaina sui bordi delle aperture.
4.2. Si sono, poi, affrontate ulteriori, plurime, doglianze difensive, incentrate: sulla riscontrata presenza nel cantiere di dispositivi individuali, in condizioni di efficienza; sul mancato uso degli stessi da parte dei destinatari; e sulla circostanza che la TMC avesse iniziato a lavorare sulla copertura in presenza di parapetti lasciati dalla ditta T. che aveva prima lavorato in loco e che al momento dell’infortunio si stava lavorando in assenza di parapetti essendo già iniziate le operazioni di risvolto della guaina su bordi delle aperture (come si rileverebbe, secondo la difesa di G.P. e S.B., da una foto asseritamente scattata da tale Cenacchi, supervisore della Coop. Icea, il giorno 20 maggio 2008, immagine dalla quale sembrerebbe evidenziarsi la compresenza di parapetti attorno alle pareti e l’avvenuto inizio della posa in opera di pannelli di isolamento, compito contrattualmente devoluto alla TMC).
4.2.1. Ebbene, la Corte di appello ha ritenuto i riferiti elementi irrilevanti, anche ove la foto, che comunque non ha data certa, fosse collocabile temporalmente secondo quanto asserito dalla difesa, sia perché in contrasto con altre plurime emergenze istruttorie sia in ossequio alla stessa logica prevenzionale.
Sotto il primo dei due profili, ha evidenziato il giudice di secondo grado che molti testimoni hanno riferito che la TMC aveva iniziato le operazioni di impermeabilizzazione senza l’utilizzo di parapetti, che erano stati rimossi dalla T. prima del subingresso di TMC; conforme, peraltro, la dichiarazione del coimputato A.M. che, in quanto datore di lavoro dell’Infortunato, S.M.DR., avrebbe avuto un evidente interesse a spostare avanti nel tempo il momento della rimozione dei parapetti e che, invece, ha ammesso l’assenza, sin dall’inizio dei lavori, di dispositivi di protezione collettiva, avendo privilegiato la scelta aziendale di ricorrere ai dispositivi di protezione individuale; inoltre, il verbale del 18 maggio 2010, data non contestata, redatto dagli imputati G.P. e S.B., di sospensione dei lavori e di ordine alla T. di completare i parapetti, stimati insicuri per l’assenza delle tavole fermapiede, rende estremamente improbabile che già due giorni dopo, il 20 maggio 2008, i lavori della prima ditta, previo adeguamento alla prescrizione, fossero già terminati, fosse già subentrata la TMC e fosse stato raggiunto dalla stessa un significativo avanzamento dei lavori; si rileva, infine, inconciliabilità dell’assunto difensivo sul punto con la durata dei lavori di impermeabilizzazione stimata dagli stessi ricorrenti nell’appello.
Sotto l’ulteriore – e ritenuto assorbente – profilo della ratio del sistema anti-infortunistico, ha ribadito la Corte di appello che la logica prevenzionale impone di dare priorità assoluta ai dispositivi di protezione collettiva rispetto a quelli meramente individuali, come reso palese dall’art. 111, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008. Sicché: non si sarebbero dovute accavallare le attività, entrambe di competenza della TMC, di posa dei pannelli e di finitura dei bordi, perché tale accavallamento ha determinato la, colposamente imprudente, rimozione dei cavalletti; in alternativa, si sarebbe dovuto procedere a togliere il parapetto, di volta in volta, in occasione della finitura dei bordi di ciascuna apertura, per poi riapporre il parapetto, dovendo la sicurezza dei lavoratori prevalere sempre sul risparmio di tempo e di denaro; in tale concreto contesto, la esistenza e la idoneità dei dispositivi di protezione individuale, su cui tanto insiste la difesa, è argomento, per tutte le ragioni esposte, considerato irrilevante; l’omessa adozione di dispositivi di protezione collettiva non può essere giustificata dalla caratteristiche della fase di lavorazione concretamente in corso, ben potendo ricorrersi a dispositivi di protezione collettiva di tipo orizzontale non influenti sulla lavorazione.
4.3. Dunque, in definitiva, la Corte di appello di Torino, disattesi motivatamente tutti i motivi dedotto in appello dagli imputati, ha ritenuto la fondatezza degli addebiti di colpa mossi a G.P. ed a S.B. in veste di coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva per il cantiere della Esselunga in Rivalta di Torino, per non avere i due assicurato, con idonea opera di vigilanza e di intervento prescrittivo, che nelle lavorazioni di spettanza della ditta TMC di A.M., di cui era dipendente S.M.DR., fossero adottati gli specifici dispositivi di protezione collettiva previsti sia dal P.O.S. che dal P.S.C. per la prevenzione del rischio di caduta dei lavoratori impiegati sulla copertura, in particolare per avere, prima, consentito che la ditta in precedenza impegnata sul tetto, T., rimuovesse i pre-esistenti parapetti di protezione dalla possibili cadute e per avere, poi, tollerato che TMC effettuasse lavori senza alcun dispositivo di protezione collettiva.
5. Ricorrono tempestivamente per cassazione, tramite difensore, G.P. e S.B., che si affidano ai motivi che di seguito si sintetizzano (ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.), evocanti promiscuamente le categorie della violazione di legge e del difetto di motivazione e chiedono l’annullamento della sentenza impugnata.
Il ricorso, che trascrive in parte i motivi di appello e che riproduce brani dell’istruttoria testimoniale, ha una struttura tripartita.
5.1. Si denunzia, in primo luogo, violazione di legge e difetto motivazionale per avere la Corte di appello, ad avviso dei ricorrenti, sostanzialmente ripercorso l’iter motivazionale svolto dalla sentenza del Tribunale, definito sbrigativo, senza tuttavia fornire adeguata motivazione del rigetto delle ragioni fondanti l’impugnazione.
La sentenza di secondo grado presenterebbe una vistosa contraddizione intrinseca nell’affermare (p. 9) che le previsioni del P.S.C. e del P.O.S. erano – sì – conformi al d.lgs. n. 81 del 2008 e, nel contempo, che, in caso di impraticabilità per singole fasi della lavorazione dei parapetti, obbligo dei coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva sarebbe stato quello di prescrivere e di verificare, prima del ricorso, solo residuale, ai dispositivi di protezione individuale, la corretta messa in opera di altri dispositivi di protezione collettiva quali impalcati e grigliati ugualmente efficaci a prevenire il rischio.
In realtà, ad avviso dei ricorrenti, la gestione del rischio successivo alla rimozione dei parapetti a protezione delle aperture era già adeguatamente presa in considerazione nei piani di sicurezza mediante la espressa previsione dei dispositivi di protezione individuali.
Assumono i ricorrenti che la lavorazione di bordatura del cordolo con risvolto della guaina, cui S.M.DR. stava attendendo il 29 maggio 2009, non avrebbe tollerato alcun dispositivo di protezione collettiva, in quanto incompatibile con tale lavorazione, ed avrebbe comportato solo la necessità di utilizzare mezzi di protezione individuale, puntualmente previsti in astratto dagli imputati e concretamente messi a disposizione dal datore di lavoro il giorno dell’infortunio; e ciò anche perché l’operazione da effettuare era limitata e di breve durata.
La sentenza sarebbe incondivisibile nella parte in cui (pp. 8-9) pone a carico degli imputati la necessità di previsione di misure di protezione collettiva di tipo orizzontale, quali ad esempio grigliati, in quanto sarebbe supportata da un ragionamento “postumo” e sostanzialmente arbitrario poiché basato su di un vero e proprio travisamento della prova. La deposizione del teste A.R., tecnico del servizio di igiene sicurezza della A.S.L. di Torino, alcuni stralci della quale si riportano nel ricorso, infatti, esprime solo l’opinione personale del singolo, compendiata nell’affermazione “secondo me si potevano mettere dei grigliati…” ma non fornirebbe alcuna certezza processuale.
Ulteriore contraddizione dei giudici di merito riguarderebbe la sovrapposizione e conseguente confusione tra la fase della posa della copertura e quella della impermeabilizzazione della copertura medesima, che sarebbero fasi diverse, affidate a ditte diverse, e che postulerebbero tecniche di protezione dei lavoratori diverse: tra l’altro, la fase della impermeabilizzazione sarebbe, a sua volta, segmentata in plurime lavorazioni (cioè: 1. posa del cuscinetto assorbente; 2. posa della guaina; 3. risvolto della guaina sul cordolo), solo l’ultima delle quali richiederebbe l’asportazione dei parapetti, la cui presenza renderebbe tecnicamente impossibile l’effettuazione in quanto il cordolo sarebbe sovrastato da un manufatto: ebbene, si assume contraddittoria ed illogica la sentenza nella misura in cui non considera che, quanto alla limitata ultima fase del risvolto della guaina sul cordolo, i documenti sulla sicurezza avevano, correttamente, previsto il lavoro con la garanzia degli adeguati dispositivi di sicurezza individuali consistenti in cinture di sicurezza e funi collegate a parti stabili dell’immobile.
Difetterebbe, dunque, alcun onere per gli imputati di aggiornare i documenti sulla sicurezza.
Del resto, il lavoratore, con grave imprudenza e negligenza, in spregio alle disposizioni vigenti, non era legato e non indossava nemmeno l’imbracatura di sicurezza che gli era stata messa a disposizione.
Si assume reiteratamente che la situazione dei luoghi e della fase della lavorazione era quella documentata mediante la fotografia scattata da C., che si riproduce materialmente nel ricorso (p. 12), e che dimostrerebbe inequivocabilmente che la fase della impermeabilizzazione era già avviata con i parapetti montati a copertura dei bordi delle aperture: la Corte di appello, nel disattendere la centrale significatività di tale documento, avrebbe travisato le prove. L’avere sminuito o non verificato il dato rappresentato dalla foto in questione costituirebbe, ad avviso dei ricorrenti, incongruenza logica e manifesta violazione delle regole sulla valutazione della prova.
Il ricorso riproduce, quindi, parte dell’appello e brani dell’istruttoria testimoniale, da cui risulterebbe che i parapetti erano stati rimossi solo in coincidenza con le opere di risvolto della guaina, cioè poco prima che l’operaio, il quale, secondo i ricorrenti, stava svolgendo un’attività funzionale alla impermeabilizzazione delle bordature della copertura in prossimità delle botole, subisse l’infortunio.
I ricorrenti affrontano, poi, il tema della presenza dei dispositivi individuali di protezione (imbracatura, corda, arrotolatore, linea-vita), tema che sarebbe stato ingiustamente ritenuto non decisivo dalla Corte di appello, sottolineando che tali oggetti erano presenti, efficienti e, come, scritto nei documenti del cantiere, idonei a salvaguardare la sicurezza dei lavoratori; si riproduce (alla p. 26) uno schema redatto dalla A.S.L. sulla disposizione della linea-vita. Si riporta parte dell’istruttoria testimoniale a proposito della idoneità delle funi, della loro lunghezza, della capacità, in ragione dell’arrotolatore inerziale, di bloccare la caduta evitando l’effetto-pendolo.
Si riferisce, poi, parte delle dichiarazioni rese dalla p.o., per inferirne la scarsa credibilità della stessa.
La Corte avrebbe, inoltre, omesso qualsiasi considerazione sia sul fatto che il lavoratore infortunato non fosse assicurato con la fune e non avesse nemmeno infilato l’imbracatura sia sul fatto che un teste, tale F., avrebbe riferito che in prossimità del corpo dell’infortunato vi era una cazzuola, ciò che proverebbe che era in procinto di sistemare il bordo del cordolo, sagomandovi la guaina, operazione che – si ribadisce – sarebbe stata preclusa dalla presenza dei parapetti.
Svolte varie considerazioni che dimostrerebbero l’inattendibilità di un teste, tale M., altro dipendente della TMC, e della persona offesa, non indifferente all’esito del processo perché destinatario di una somma a titolo di indennizzo, si denunzia la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen.
In definitiva, la condanna degli imputati violerebbe la regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”.
5.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata nella parte in cui attribuirebbe ai due imputati, in quanto coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva, un obbligo di aggiornamento della procedura di sicurezza, senza che vi sia un fondamento normativo nel d.lgs. n. 81 del 2008: e ciò in quanto presupposto per l’aggiornamento è la sopravvenienza di una nuova situazione di rischio, sopravvenienza che nel caso di specie non si sarebbe verificata.
Inoltre, il ruolo di “alta vigilanza”, come puntualizzato da più sentenze della S.C., che è tipico del coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva, non comporterebbe l’obbligo di una puntale, stretta e stringente vigilanza, ergo: di una costante presenza in cantiere.
Da entrambe le considerazioni da ultimo svolte discenderebbe la illegittimità della decisione, poiché fondata su di una interpretazione del d.l.gs. n. 81 del 2008 non conforme all’effettivo contenuto della disciplina.
5.3. Da ultimo, si censura la sentenza per avere omesso di motivare a proposito della prova del nesso causale tra il preteso obbligo giuridico omesso dai due imputati e l’evento determinatosi, avendo la Corte di appello pretermesso che il lavoratore si trovava, al momento dell’infortunio, sotto la vigilanza del suo datore di lavoro e che non aveva indossato i dispositivi individuali di protezione: ne consegue che il lavoratore, peraltro con un comportamento abnorme, avrebbe autonomamente dato corso al sinistro, interrompendo ogni nesso di causalità riguardo alla pretesa omessa sorveglianza dei due coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva.
Diritto:
1. I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.
Va premesso che il reato contestato non è prescritto (fatto del 29 maggio 2009 + sette anni e sei mesi = 29 novembre 2016; non risultano eventi sospensivi nei gradi di merito).
2. Ciò posto, osserva il Collegio che il ricorso per cassazione in esame risulta, in sostanza, un maquillage, per quanto abilmente confezionato, dell’atto di appello, la cui struttura argomentativa il ricorso, in effetti, ripercorre (si noti che ne costituisce indice anche il richiamo, alle pp. 1 e 30 del ricorso, alla pretesa violazione dell’art. 606, comma 1, lett. d, cod. proc. pen., sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva, che era un aspetto sollevato in appello con riferimento al teste Tr.: cfr. p. 25)
2.1. I ricorrenti, a ben vedere, essenzialmente insistono nelle osservazioni già svolte in appello e già disattese dalla Corte territoriale con motivazione che appare ampia, analitica, puntuale e logica.
L’impugnazione in esame presenta, inoltre, tre fondamentali limiti, che la rendono inaccoglibile.
2.1.1. In primo luogo, in non insignificante parte non si confronta con la sentenza di secondo grado, come, ad esempio, nella parte in cui sottolinea che la necessità di sistemi di sicurezza di tipo orizzontale, quali griglie, palchi o reti, sarebbe fondata sulla testimonianza, definita opinione, del tecnico della A.S.L. A.R., mentre è un obbligo che il giudice di merito trae direttamente dalla legge, in particolare dell’art. 111 del d.lgs. n. 81 del 2008.
2.1.2. In secondo luogo, perché il ricorso riferisce cospicua porzione dell’istruttoria, testimoniale e documentale (compresa una fotografia, la cui origine e datazione non risultano certe, ed uno schema, che vengono materialmente inclusi nel ricorso), sottoponendo alla Corte di cassazione i relativi risultati fattuali, per trarne le conseguenze soggettivamente stimate preferibili dai ricorrenti. Nel fare ciò non tiene, tuttavia, in adeguata considerazione che si è in presenza di doppia conforme e che nessuno degli argomenti svolti è tale da disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione dei giudici di merito per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale- probatorio.
2.1.3. In ogni caso, infine, il ricorso glissa sul tema delle strutture di protezione collettive orizzontali (ad esempio griglie e palchi) e tace totalmente sul tema sulla possibilità di apporre delle reti di protezione sotto le aperture (aspetto che è approfonditamente trattato, invece, nella sentenza di appello, cfr. pp. 7-14), che avrebbero trattenuto il lavoratore, evitando le gravi conseguenze occorse.
2.2. L’aspetto del ricorso maggiormente involgente il giudizio di legittimità (e che si è sintetizzato al punto n. 5.2. del “ritenuto in fatto”) è quello della latitudine del ruolo di “alta vigilanza” del coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva, tale essendo la veste degli imputati G.P. e S.B..
Ebbene, a proposito della nozione di “alta vigilanza” appare opportuno richiamare alcune fondamentali precisazioni della S.C..
La prima: «In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore della sicurezza per l’esecuzione dei lavori svolti in un cantiere edile temporaneo o mobile è titolare di una posizione di garanzia, che non può ritenersi esaurita allorché siano terminate le opere edili in senso stretto, in quanto lo stesso continua a rivestire un ruolo di vigilanza sul generale espletamento delle lavorazioni, che ordinariamente afferiscono ai cantieri, per tutto il tempo necessario per la completa esecuzione dell’opera», come ritenuto da Sez. 4, n. 3809 del 07/01/2015, C.D., Rv. 261960, nella cui parte motiva si precisa, opportunamente, quanto segue:
“3. Giova ricordare che i compiti e la funzione normativamente attribuiti a tale figura [il coordinatore per l’esecuzione dei lavori] risalgono all’entrata in vigore del D.Lgs.14 agosto 1996, n. 494 (di attuazione della Direttiva 92/57/CEE) nell’ambito di una generate e più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili – a fianco di quella del committente, allo scopo di consentire a quest’ultimo di delegare, a soggetti qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e coordinamento, altrimenti su di lui ricadenti, implicanti particolari competenze tecniche. La definizione dei relativi compiti e della connessa sfera di responsabilità discende, pertanto, da un lato, dalla funzione di generale, alta vigilanza che la legge demanda allo stesso committente, dall’altro dallo specifico elenco, originariamente contenuto nel D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, art. 5, ed attualmente trasfuso nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 92, a mente del quale il coordinatore per l’esecuzione è tenuto a verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro; a verificare l’idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.), assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere ad adeguare in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere; a verificare che te imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi P.O.S.; ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonchè la loro reciproca informazione; a verificare l’attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali ai fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato ai miglioramento della sicurezza in cantiere; a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96, e art. 97, comma 1, e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto in caso di inosservanza; a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competenti; a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.”
3.1. Appare, dunque, chiaro che il coordinatore per l’esecuzione riveste un ruolo di vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e stringente vigilanza, momento per momento, demandata alle figure operative, ossia al datore di lavoro, al dirigente, al preposto (Sez.4, n. 443 del 17/01/2013, Palmisano, Rv. 255102; Sez. 4, n. 18149 del 21/04/2010, Cellie, Rv. 247536; Sez. 4, n. 1490 del 20/11/2009, dep. 2010, Fumagalli, non massimata sul punto). Ed è proprio in relazione al primario compito di coordinamento delle attività di più imprese nell’ambito di un medesimo cantiere, normativamente attribuito a tale figura professionale, che deve trovare fondamento la definizione della sua posizione di garanzia nel cantiere temporaneo o mobile come positivizzata nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 89, comma 1, lett. a).
3.2. Secondo tale norma, per cantiere temporaneo o mobile s’intende qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’All. X, ossia qualunque luogo in cui si effettuano lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento; la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro; gli scavi, ed il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o di ingegneria civile.
3.3. Come è evidente, la lettera della legge non autorizza a ritenere che il cantiere temporaneo o mobile debba considerarsi concluso, e che sia correlativamente esaurita la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione, allorchè siano terminate le opere edili in senso stretto, ponendosi tale interpretazione in contrasto tanto con la pluralità delle lavorazioni che, ordinariamente, afferiscono ai cantieri in cui si eseguono lavori edili, e che sono agli stessi funzionali, quanto con la necessità di garantire la massima sicurezza dei lavoratori legata al coordinamento delle diverse attività lavorative per tutto il tempo necessario a consentire la completa esecuzione dell’opera, ancorchè i lavori editi in senso stretto siano stati terminati in un momento antecedente.
3.4. Ciò che mantiene operante la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione non può essere tanto il mancato completamento delle attività inerenti ai lavori edili o di ingegneria civile propriamente detti, quanto piuttosto la persistenza di ulteriori fasi di lavorazione proprie dell’attività di cantiere nel suo complesso. L’esecuzione di lavori edili o di ingegneria civile giova, in altre parole, a connotare, in ragione del tipo di attività che ivi si svolge, il cantiere temporaneo o mobile, ma non è sufficiente a definire anche i limiti spaziotemporali di tale cantiere, diversamente correlati al perfezionamento di tutte le fasi di lavorazione, anche successive ai lavori edili o di ingegneria civile in senso stretto, funzionali al collaudo ed alla consegna dell’opera.
3.5. L’interpretazione della norma suggerita nel ricorso muove, peraltro, da una premessa di fatto che non trova corrispondenza nelle emergenze istruttorie riportate nelle sentenze di merito, sostenendosi che l’impianto idraulico al quale era adibito il lavoratore infortunato dovesse ritenersi connesso alla produzione industriale piuttosto che asservito ad opere edili o di genio civile e che, pertanto, le sue mansioni esulassero dalle attività del cantiere temporaneo o mobile coordinato dall’imputato. La Corte territoriale ha, in proposito, precisato che i lavori non potevano dirsi terminati fintantochè vi fossero in cantiere operai di varie ditte ancora impegnati in messe a punto degli impianti idraulico ed elettrico ed in verifiche dei loro funzionamento; che dovevano ancora essere eseguite le prove di funzionamento a freddo e a caldo, preliminari al collaudo, e neppure erano stati installati gii impianti di sicurezza; che l’impianto non poteva, pertanto, definirsi idoneo al funzionamento in quanto con tale locuzione s’intende un impianto pronto per l’ordinaria utilizzazione da parte dell’impresa committente.
4. Alla luce del principio interpretativo in precedenza esposto risulta, dunque, infondato l’assunto in base al quale su C.D. non incombesse alcun obbligo di garanzia in ragione del fatto che le opere edili fossero terminate e che, con esse, fosse cessato il cantiere temporaneo da lui coordinato, posto che l’opera alla cui realizzazione il cantiere era preordinato non era stata consegnata al committente e nel cantiere si dovevano ancora svolgere attività di regolazione degli impianti strumentali alle prove di funzionamento, a loro volta preliminari al collaudo. Non risulta, peraltro, idoneo a scardinare la legittimità del provvedimento impugnato il riferimento ad una normativa sopravvenuta al fatto (D.Lgs. n. 17 del 2010), contenuto nella sentenza al solo fine dialettico di rafforzare gli argomenti addotti a sostegno di una determinata interpretazione della normativa in vigore all’epoca dell’infortunio».
Ulteriore precisazione: «In tema di infortuni sul lavoro, con riferimento alle attività lavorative svolte in un cantiere edile, il coordinatore per l’esecuzione del lavori è titolare di una posizione di garanzia che si affianca a quella degli altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica, in quanto gli spettano compiti di “aita vigilanza”, consistenti: a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure dì lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori; b) nella verifica dell’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell’assicurazione della sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento; c) nell’adeguamento dei piani in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS» (Sez. 4, n. 44977 del 12/06/2013, Lorenzi e altri, Rv. 257167).
Ancora: «In materia di infortuni sul lavoro, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ex art. 5 D.Lgs. n. 494 dei 1996, oltre ad assicurare il collegamento fra impresa appaltatrice e committente al fine di realizzare la migliore organizzazione, ha il compito di vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza da parte delle stesse e sulla scrupolosa applicazione delle procedure a garanzia dell’incolumità dei lavoratori nonché di adeguare il piano di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori, con conseguente obbligo di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, le singole lavorazioni» (Sez. 4, n. 18651 del 20/03/2013, Mongelli, Rv. 255106).
Infine: «Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza (Fattispecie nella quale si contestava all’imputato, nella suddetta qualità, di avere omesso di vigilare – non essendo assiduamente presente in loco – sulla corretta applicazione delle prescrizioni dei piano di sicurezza dallo stesso redatto: la Corte, pur non configurando un obbligo di presenza continuativa in cantiere, ha ritenuto che l’imputato, nel corso delle periodiche visite, avrebbe dovuto informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente, per ciascuna fase, l’effettiva realizzazione delle programmate misure di sicurezza, che erano risultate in concreto non approntate)» (Sez. 4, n. 32142 del 14/06/2011, Goggi, Rv. 251177).
2.3. Ebbene, facendo applicazione dei richiamati principi nel caso di specie, discende che è assolutamente malposta la censura incentrata sull’omesso adeguamento da parte degli imputati dei piani di sicurezza alla situazione concreta, necessità di adeguamento che si contesta, in quanto, invece, il nucleo essenziale della condotta di G.P. e di S.B. stimata rimproverabile dai giudici di merito, con motivazione congrua, logica ed immune da censure, sta in ciò: si era in un momento di interconnessione tra l’attività di due imprese, una subentrante all’altra, in una situazione oggettivamente ed innegabilmente rischiosa, poiché si svolgevano lavori in quota, in particolare sul tetto, ed in presenza di aperture non protette. Il subingresso di un’impresa ad un’altra, momento di per sé delicato, in un contesto fattuale simile ha sicuramente costituto un’accentuazione dell’area di rischio (come implicitamente ammesso dai ricorrenti nella misura in cui sottolineano la delicatezza dell’operazione di risvolto della guaina sul cordolo, che non avrebbe consentito l’apposizione di sistemi di protezione verticali). Rischio che era compito dei coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva governare e che non risulta correttamente gestito, avendo i giudici di merito accertato (se ne è dato atto al punto n. 3 del “ritenuto in fatto”) quanto segue: che entrambi gli imputati hanno omesso di vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano operativo di sicurezza (P.O.S.) e del piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.), in quanto, per almeno due-tre giorni, i lavori sulla copertura erano andati avanti in assenza dei dispositivi di protezione collettiva pur correttamente prescritti, appunto, dal P.O.S. e dal P.S.C., senza che alcuna contestazione fosse mossa dai coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva al datore di lavoro, essendo la società TMC di A.M. subentrata nel cantiere dopo che la ditta T. aveva rimosso i parapetti che in precedenza erano stati posti; e che nel cantiere non erano presenti cartelli che segnalassero i pericoli di cadute e la necessità di utilizzare i dispostivi di protezione individuale. Del resto, e conclusivamente, come verificato dai giudici di merito, nella precedente occasione del 18 maggio 2009 i due coordinatori, resisi conto dell’assenza della tavola fermapiede, avevano sospeso i lavori.
In definitiva, pur non configurandosi, come si è visto, in capo ai coordinatori per la sicurezza in fase esecutiva un obbligo di presenza continuativa nel cantiere, l’avere omesso, per due-tre giorni il controllo in loco, in un momento indubbiamente critico quale l’avvicendamento tra due imprese mentre erano in corso lavori sul tetto e con fori scoperti, per di più nella delicata fase di risvolto della guaina sul cordolo, è stato correttamente ritenuto dai giudici di merito integrare violazione di un obbligo derivante dalla posizione di garanzia rivestita dagli imputati.
2.4. Né può ragionevolmente sostenersi l’abnormità della condotta del lavoratore per non essersi lo stesso allacciato i dispositivi di protezione individuali, pur presenti nel cantiere, in quanto tale imprudenza non rientra in alcun modo nella nozione di abnormità quale enucleata dalla giurisprudenza di legittimità, e cioè: «comportamento anomalo […] assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite […] del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore» (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386); o «contegno abnorme del lavoratore […] configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale» (Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne e altro, Rv. 259227); o «compimento da parte del lavoratore […] di un’operazione […] eccentrica rispetto alla mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo» (Sez. 4, n. 7955 del 10/10/2013, dep. 2014, Rovaldi, Rv 259313); o «comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e che tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli» (Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Millo e altri, Rv. 250710); oppure «comportamento imprudente del lavoratore che sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle Ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro» (Sez. 4, n. 7267 del 10/11/2009, dep. 2010, Iglina e altri, Rv. 246695); ovvero «contegno eccezionale od abnorme del lavoratore […], esorbitante cioè rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute e come tale, dunque, del tutto Imprevedibile» (Sez. 4, n. 15009 del 17/02/2009, Liberali e altro, Rv. 243208).
2.5. Escluso, dunque, il profilo di abnormità della condotta del lavoratore per non avere indossato i dispositivi di protezione individuali, incondivisibile è, infine, il riferimento operato dai ricorrenti alla circostanza che il lavoratore si sarebbe trovato, al momento dell’Infortunio, sotto la vigilanza (scilicet: esclusiva) del suo datore di lavoro. Si è, infatti, precisato che «In tema di infortuni sul lavoro, la funzione di alta vigilanza, che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori, ha ad oggetto quegli eventi riconducibili alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione e non anche gli eventi contingenti, scaturiti estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori medesimi e, come tali, affidati al controllo del datore di lavoro e dei suo preposto (Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del coordinatore per la sicurezza in relazione al crollo di un’impalcatura)» (Sez. 4, n. 46991 del 12/11/2015, Porterà e altri, Rv. 265661): facendo applicazione di tale principio nel caso di specie, non potendo definirsi la delicata e rischiosa fase dell’attività lavorativa che era in corso e che si è descritta mero momento contingente ed estemporaneo, rientrando invece a pieno titolo nella configurazione essenziale della lavorazione, correttamente, in definitiva, si è ritenuto esteso anche all’aspetto in esame l’ambito dell’alta vigilanza gravante sul coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione.
3. Discende la statuizione in dispositivo. Al rigetto dei ricorsi consegue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processali.
P.Q.M.:
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 26/04/2016.
FONTE: Cassazione Penale
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