Cassazione Penale, Sez. 4, 27 settembre 2016, n. 40033 – Infortunio mortale di un lavoratore precipitato nel vano ascensore durante i lavori di intonacatura. Ruoli all’interno del cantiere e Responsabilità amministrativa dell’impresa
Fatto: Con sentenza emessa in data 14 gennaio 2014 il Tribunale di Milano dichiarava C.L. – quale amministratore unico della Fe.Ma. s.r.l. società committente dei lavori per la costruzione di una palazzina di civile abitazione presso Bresso nonché in qualità di responsabile dei lavori – M.M. – quale amministratore della I. s.r.l. affidataria dei lavori di costruzione della palazzina nonché nella qualità di direttore tecnico dei lavori – e P.F. – nella sua qualità di direttore di fatto del cantiere per G&D Costruzioni, società cui I. srl aveva subappaltato le opere di muratura della palazzina nonché per la sua ingerenza nelle attività appaltate alla società PJ. COSTRUZIONI srl — società cui la I. aveva subappaltato le opere di intonacatura, responsabili del delitto di cui agli artt. 40 cpv. 589 co. 1 e 2 perché, nelle rispettive qualità, per colpa cagionavano la morte di L.L., dipendente della PJ. COSTRUZIONI srl (capo A). Quest’ultimo, infatti, in data 30 luglio 2009, mentre svolgeva attività di intonacatura delle aree di sbarco dell’ascensore, situate ai diversi piani della palazzina, in assenza di qualsiasi misura di protezione contro il rischio di caduta, precipitava nel vano ascensore riportando lesioni gravissime che ne comportavano l’immediato decesso.
In particolare si riteneva il C.L. (committente) responsabile del suddetto reato in quanto, in violazione degli artt. 90 co. 2 DLvo n. 81/2008 e 2087 cc, ometteva di valutare adeguatamente la idoneità e completezza del PSC (piano di sicurezza e di coordinamento previsto dall’art. 91 co. 1 D.Lvo 81/2008), con riguardo all’assenza nel predetto PSC di misure di prevenzione del rischio di caduta nel vuoto durante le operazioni di intonacatura nelle aree di sbarco dell’ascensore, avendo, anzi, inserito una previsione – “ripristinare le protezioni sul vuoto che sono state rimosse per l’intonacatura delle superfici” – che implicitamente autorizzava la rimozione, momentanea, nel corso dei lavori in prossimità del vano ascensore, delle protezioni in questione senza prevedere l’adozione di misure di sicurezza alternative.
Si riteneva responsabile del suddetto delitto il M.M. (direttore tecnico dei lavori) perché, in violazione degli artt. 97 co. 1,2 e 3, 26, 146 co. 3 D.Lvo 81/2008 e 2087 cc, ometteva di vigilare sulla sicurezza dei lavori affidati alla PJ. COSTRUZIONI; ometteva di verificare l’idoneità tecnica di tale società e l’adeguatezza del suo POS (piano operativo di sicurezza) – che non prevedeva adeguate misure di protezione contro il rischio di caduta nel vuoto durante le operazioni di intonacatura anche delle aree di sbarco dell’ascensore ometteva di coordinare gli interventi di cui agli artt. 95-96 D.Lvo 81/2008 e di promuovere il coordinamento e la cooperazione delle imprese esecutrici ai fini della sicurezza ed infine ometteva di provvedere affinché, durante l’intonacatura delle predette aree, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto tramite parapetto munito di tavola fermapiede ovvero altrimenti sbarrate. Infine si riteneva responsabile il P.F. (direttore di fatto del cantiere) in quanto, in violazione degli artt. 146 co. 3 DLvo 81/2008, 2087 c.c. ometteva di provvedere affinché, durante l’intonacatura delle aree di sbarco, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto; avendo, invece, lo stesso disposto che i lavoratori procedessero alla intonacatura previa rimozione delle tavole poste a protezione del suddetto vano.
Per il suddetto delitto il Tribunale di Milano condannava il C.L. alla pena di mesi 6 di reclusione, il M.M. alla pena di anni 1 di reclusione ed il P.F. alla pena di mesi 9 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali ad al risarcimento in favore delle costituite parti civili. Riconosceva a ciascuno dei predetti imputati il beneficio della sospensione condizionale subordinato al pagamento di una provvisionale in favore delle parti civili.
Dichiarava inoltre la G&D srl – come pure la PJ., la Fe.Ma. srl e la I. – responsabili dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 co. 1 lett. a) e b), 6,7, 25-septies D.Lgs. 231/01 in relazione al delitto di cui all’art. 589 c.p. (capo A) perché ometteva di adottare ed attuare modelli di organizzazione e gestione idonei ad impedire reati della specie di quello descritto al capo A commesso dal P.F. il quale svolgendo di fatto funzioni di direzione della società, avuto anche riguardo al risparmio delle spese e dei costi che la società avrebbe dovuto sostenere per l’adozione delle misure idonee ad evitare il suddetto reato. Condannava al pagamento della sanzione pecuniaria di euro 64.500,00 nonché al risarcimento del danno patito dalle parti civili da liquidarsi in separato giudizio
Condannava infine il P.F. in solido con la G&D srl (con Preci Leke e la PJ. Costruzioni) al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 90.000,00 ciascuno in favore dei genitori del defunto L.L. e di 40.000,00 euro ciascuno in favore delle tre sorelle dello stesso (per complessivi euro 300.000.00).
Proposto appello, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, concedeva al C.L., al M.M. ed al P.F. il beneficio della non menzione. Assolveva le società Fe.Ma ed I. dagli illeciti amministrativi loro ascritti perché il fatto non sussiste. Confermava nel resto l’impugnata sentenza. Avverso tale pronuncia i difensori del C.L., del P.F., del M.M. e della G&D srl hanno proposto ricorso per cassazione per i motivi di seguito indicati.
C.L.
1) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 589 c.p. e di altra norma giuridica di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge, nello specifico del D.Lvo n. 81/2008 prima delle modifiche introdotte dal DLvo 106/2009 (ovvero gli artt. 89 lett. c e 90 D.Lvo 81/2008). Vizio di motivazione sul punto.
Premesso che il C.L. è stato ritenuto responsabile del reato ascritto in quanto, in qualità di amministratore unico della FE.MA, società committente dei lavori, ometteva di valutare l’adeguatezza del PSC, rileva la difesa che, all’epoca dei fatti, era in vigore l’originaria formulazione dell’art. 89 lett. c) del D.Lvo 81/08 in base alla quale il responsabile dei lavori è “il soggetto incaricato dal committente, della progettazione o del controllo dell’esecuzione dell’opera; tale soggetto coincide con il progettista per la fase della progettazione dell’opera e con il direttore dei lavori per la fase dell’esecuzione dell’opera”. Il successivo art. 91 co. 1 stabiliva che “il committente o il responsabile dei lavori, nella fase di progettazione dell’opera, valuta i documenti di cui all’art. 91 (cioè il PSC).
Dunque, afferma il ricorrente, dal combinato disposto delle due norme appena richiamate, si desume che il committente era una figura residuale rispetto al responsabile dei lavori che coincideva, nella fase della progettazione, con il progettista e, in quella dell’esecuzione, con il direttore dei lavori. Laddove, come nel caso di specie, fosse presente un responsabile dei lavori, quindi, nulla poteva essere contestato al committente.
Orbene, tali considerazioni, già rilevate nei precedenti gradi di giudizio, avrebbero dovuto condurre, secondo la difesa, ad escludere la responsabilità del C.L.. Viceversa la Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che doveva trovare applicazione il D.Lvo n. 81/2008 prima della riforma introdotta dal D.Lvo 106/09. In particolare, nonostante l’apposito motivo di appello, la sentenza impugnata, nella parte relativa alla posizione dell’imputato, nulla dice sul punto. Peraltro anche la giurisprudenza richiamata dal giudice di appello con riguardo alla posizione dell’imputato M.M.,, ad una più attenta analisi, sembra confermare l’assunto della difesa secondo il quale si deve applicare la normativa vigente al tempo del sinistro, ovvero il D.Lvo 81/08 prima della riforma del 2009.
2) Vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. (del risarcimento del danno).
La Corte di appello ha negato la suddetta attenuante in quanto la somma conferita ai familiari della vittima non corrispondeva alle tabelle del risarcimento del danno del Tribunale di Milano, assunte ormai in tutto Italia quale parametro di base per la determinazione dell’indennizzo.
Al contrario, secondo la difesa, tali tabelle sono state rispettate in quanto la cifra corrisposta agli eredi – i genitori e le tre sorelle – è stata di complessivi 400.000,00 euro. Difatti le tabelle prevedevano nel 2011 la corresponsione di euro 154.350,00 per ciascun familiare ed euro 22.340,00 euro per ciascun fratello, per un totale di 375.720,00 euro, che è somma inferiore ai 400.000,00 euro riconosciuti. Peraltro, continua la difesa, le tabelle milanesi costituiscono soltanto un punto di riferimento che va poi valutato e rapportato alle peculiarità del caso concreto considerando, ad esempio, la convivenza tra i fratelli e le relazioni, anche affettive, intercorse tra i parenti. Tutti profili non affrontati dalla Corte di appello.
M.M.
1-2) Inosservanza ed erronea applicazione degli arti. 89 e 90 D.Lvo 81/2008 e vizio di motivazione in relazione all’esplicita indicazione della qualità di direttore dei lavori in capo al M.M..
Come già rilevato nell’atto di appello, si è addossata al M.M. una qualifica, quella di “direttore tecnico dei lavori”, che invero non esiste. L’art. 89 del D.Lvo 81/2008, in vigore all’epoca dei fatti, nell’elencare i soggetti gravati degli obblighi di prevenzione, menziona sempre e solo il committente dei lavori ed il responsabile dei lavori e dei coordinatori per la sicurezza con assoluta esclusione della figura del direttore, figura non prevista dal legislatore.
Ancora, continua la difesa, il M.M. è legale rappresentante della I. che aveva ricevuto dalla committente, la Fe.Ma Immobiliare, l’incarico di realizzare la palazzina. La I., però, non aveva operai distaccati presso il cantiere in quanto non aveva alcuna attività edilizia da espletare avendo subappaltato l’esecuzione dei lavori alla G&D s.r.l. ed alla PJ. s.r.l. (l’impresa per cui lavorava la vittima). Ciascuna delle due imprese aveva i rispettivi preposti con i relativi compiti di sorveglianza, controllo e coordinamento dei lavori. In particolare nei contratti di subappalto la I. aveva specificato, quale obbligo specifico a
carico delle ditte subappaltatrici, quello di destinare specifiche persone all’attività di controllo sulla sicurezza.
Dunque la I. non aveva alcun obbligo né interesse a designare un proprio direttore dei lavori.
3-4) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riguardo agli art. 589 c.p., 89 e 90 D.Lvo 81/2008 (nel testo vigente prima del D.Lvo 106/2009) . Omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla asserita posizione di garanzia incombente sul M.M..
Censura la difesa l’attribuzione al M.M. di una specifica posizione di garanzia da parte dei giudici di merito benché fossero stati nominati, per la committente FE.MA. s.r.l., il direttore dei lavori e il responsabile della sicurezza e le subappaltatrici avessero propri responsabili dei lavori e del cantiere.
Peraltro, osserva la difesa, la I. avesse subappaltato ogni lavorazione, stipulando due distinti contratti di subappalto con la PJ. e con la G&D, riservandosi esclusivamente la funzione di acquisto e messa a disposizione del materiale; circostanza alla quale la stessa Corte territoriale ricollega l’esonero da ogni obbligo di protezione dell’imputato, mostrando in tal modo di contraddirsi.
Quanto al dato normativo, la difesa afferma che i fatti in questione si sono verificati prima della novella del 2009, quando era ancora in vigore il testo originario del D.Lvo 81/2008. Orbene secondo tale disciplina il committente (ed il sub committente) era una figura residuale rispetto al direttore dei lavori ed al progettista che, invece, erano indicati quali responsabili dei lavori. Ed il responsabile dei lavori, prosegue la difesa, assorbiva ed integrava pienamente la posizione di garanzia che la Corte di appello ha erroneamente addossato al M.M..
5) Omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla sussistenza di cause sopravvenute tali da escludere il rapporto di causalità ex art. 41 c.p., risultando le stesse da sole idonee e sufficienti a determinare l’evento.
In particolare, secondo la difesa, i giudici di merito non avrebbero accertato la sussistenza del nesso di causalità tra l’omissione attribuita al M.M. e l’evento.
Invero, continua il ricorrente, tutti i testimoni presenti in cantiere hanno riferito che, fino al giorno precedente l’incidente, le aree di sbarco dell’ascensore erano protette da assi verticali ed orizzontali inchiodate alle pareti. Tali assi, a detta della difesa, devono considerarsi un regolare sistema antinfortunistico in quanto, come emerge dalla deposizione del teste EB., il giorno prima dell’incidente erano venuti in cantiere i tecnici della ASL i quali non avevano rilevato alcuna violazione di regole di sicurezza, attestando la regolarità del cantiere stesso.
6) Omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta acquisizione di prove sulle modalità della caduta, sulle violazioni di precise regole di prevenzione e sul nesso causale tra le violazioni asserite e l’evento lesivo.
A detta della difesa nell’impugnata sentenza non sono chiarite le modalità concrete della caduta della vittima. In assenza di qualsivoglia indicazione di tali circostanze, è impossibile dimostrare il collegamento tra la caduta e la violazione di regole di prevenzione degli infortuni.
In proposito, infatti, vengono avanzate mere supposizioni, quali il possibile spostamento delle fodere poste a protezione del vano ascensore, nonché 1’ ingerenza dei committenti che avrebbero affrettato la conclusione dei lavori, senza che dette ricostruzioni sulle cause dell’incidente abbiano trovato sicuri riscontri.
7) Vizio di motivazione in relazione alla negata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p.
P.F.
1) Violazione di legge in relazione agli artt. 146 co. 3 D.Lvo 81/2008, 2087 c.c., 40 cpv. e 589 co. 1 e 2 c.p. con riguardo alla verifica dei presupposti di individuazione di una posizione di garanzia in capo al P.F. e del nesso di causalità tra la condotta al medesimo contestata e l’infortunio in esame; correlato vizio di motivazione.
La difesa evidenzia che la responsabilità del P.F. per l’infortunio che ha condotto alla morte dell’operaio L.L., si fonda sull’attribuzione all’imputato di una posizione di garanzia connessa alla sua qualità di preposto di fatto, qualifica ritenuta priva di qualsivoglia fondamento sostanziale e fattuale.
Difatti il P.F. era dipendente e titolare di quote della società G&D srl, società amministrata dal figlio, cui erano state affidate esclusivamente ad opere di muratura. Il lavoratore deceduto, L.L., invece, era dipendente della PJ. COSTRUZIONI, impresa alla quale la committente I. s.r.l. aveva affidato integralmente l’appalto per l’intonacatura dell’intera palazzina.
Dunque il P.F. era un operaio senza formale delega di preposto alla sicurezza per la G&D, che non aveva alcun incarico inerente l’intonacatura dell’edificio affidata alla PJ., al di la della mera assistenza esterna per il trasporto di materiali con la gru.
La sentenza impugnata ha individuato nel P.F. il preposto di fatto alla sicurezza del cantiere sulla base delle sole testimonianze di alcuni dipendenti della PJ., secondo le quali lo stesso avrebbe impartito direttive e indicazioni con ciò ingerendosi nell’attività di intonacatura della PJ., dichiarazioni ritenute dal difensore non univoche, peraltro smentite dalle affermazioni di segno contrario dei dipendenti della PJ., che hanno ribadito la loro autonomia operativa, escludendo che l’imputato dovesse o avesse mai fornito istruzioni vincolanti in ordine alle misure di sicurezza, essendo lo stesso operaio dipendente di altra ditta cui non competeva l’attività di intonacatura.
In particolare non sussiste alcuna prova che il P.F. avesse disposto che gli operai della PJ. svolgessero la loro attività rimuovendo i parapetti di protezione dalla caduta nel vano ascensore.
2) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili
La difesa lamenta 1’erronea quantificazione della provvisionale immediatamente esecutiva riconosciuta alle parti civili, in quanto non commisurata al potere di acquisto della moneta in Albania (paese di residenza delle parti civili). Tale profilo stato valutato dalla Corte territoriale quale inaccettabile deriva socio-giuridica legata alla diversità etnica, nonostante la presenza di un orientamento giurisprudenziale che ammette in sede di commisurazione del risarcimento una valutazione sul potere di spesa della moneta al fine di valutare la congruità della provvisionale immediatamente esecutiva anche nell’ottica proporzionale rispetto al quantum totale da liquidarsi in sede civile.
Peraltro le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale sul punto risultano del tutto insufficienti mancando qualsivoglia valutazione concreta del vincolo morale e del contributo economico che L.L. forniva alla famiglia residente in Albania e risultando del tutto omessa l’indicazione dei criteri adottati nel calcolo della predetta provvisionale.
G&D Srl (nella persona del legale rappresentante D.P.)
Con unico motivo di ricorso il difensore della G&D lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 5 e 66 D.Lgs. 231/01 con riguardo alla prova del requisito dell’interesse o vantaggio dell’ente per il reato in esame.
I giudici di appello hanno ritenuto, limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado le cui di cui hanno le argomentazioni hanno valutato adeguate ed esaustive, che, siccome la G&D aveva ricevuto dalla I. un subappalto per l’intera opera – “a corpo” e non in economia -, prima i lavori venivano terminati, prima poteva essere presentato il SAL e prima si sarebbe avuto il pagamento. Ciò avrebbe spinto le subappaltatrici, G&D e PJ., ad accelerare i lavori e quindi anche le opere di intonacatura. Ciò anche in considerazione del fatto che entrambe avevano aperti altri cantieri e, quindi, chiudere uno di essi, peraltro in prossimità delle ferie estive, significava potersi concentrare sugli altri o acquisire nuove commesse.
Orbene tali conclusioni sono, a detta della difesa, mere congetture anche perché riguardano un infortunio avvenuto il 30 luglio 2009 (nello svolgimento di un’attività iniziata o nella stessa giornata o il giorno prima) cioè un giorno prima della preventivata sospensione estiva del cantiere: dunque la presunta accelerazione incauta dei lavori da parte della ditta degli intonacatori sarebbe stata di soli due giorni.
Peraltro, a prescindere da tali profili, la difesa evidenzia un’errata applicazione del D.Lgs. 231/01 in base al quale l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo dello stesso (lett. a ) o da persone sottoposte alla direzione/vigilanza di una dei predetti soggetti (lett. b) (art. 5).
La sentenza di appello, infatti, fa discendere la responsabilità della G&D per l’omicidio colposo di L.L. dalla presunta omissione colposa del dipendente P.F.. In particolare, secondo l’ipotesi accusatoria, il P.F., quale preposto di fatto, avrebbe avuto l’obbligo di impedire l’evento o, comunque, di segnalare le modalità pericolose del lavoro dei dipendenti della PJ. che intonacavano le aree di sbarco dell’ascensore avendo asportato i parapetti di protezione.
Secondo la difesa tale presupposto è erroneo: la Corte di appello, infatti, non avrebbe considerato una circostanza pacifica e determinante. Come emerso in sede dibattimentale, i dipendenti della G&D – che avevano precedentemente operato all’interno dello stabile in costruzione sui vari piani nelle aree destinate ai futuri appartamenti – avevano lasciato i suddetti parapetti inchiodati alle pareti in quanto, ai fini della realizzazione delle opere murarie, non occorreva rimuoverli. Dunque la G&D, completate le opere murarie, non aveva alcun interesse alle modalità di esecuzione delle opere di intonacatura da parte degli operai della PJ.. Né si può dire che dalla rimozione dei parapetti potesse trarre un vantaggio economico (in termini di risparmio di costi per la sicurezza) o di altro genere. Peraltro se, prima dell’infortunio, fosse stata disposta una integrazione delle misure di sicurezza sul cantiere, la stessa G&D avrebbe ricevuto l’incarico di approntarle con ulteriore retribuzione. Quindi, secondo al difesa, la G&D aveva un “interesse contrario alle omissioni riscontrate”.
Diritto:
1. Stante la differenza delle posizioni dei singoli imputati, è opportuno esaminare ciascun ricorso separatamente a cominciare da quello di C.L., amministratore unico della committente Fe.Ma. srl..
Il ricorso è fondato per i motivi di seguito illustrati.
Occorre innanzitutto rilevare che nel quadro delle molteplici posizioni di garanzia previste dalla normativa di settore al fine del rafforzamento del sistema della prevenzione e sicurezza sul lavoro, attraverso la sinergia di interventi di diversi soggetti destinatari degli obblighi di protezione, è prevista la figura del committente, introdotta dal d.lgs 14.8.1996 n. 494, (riguardante i cantieri mobili o mobili), le cui norme sono state trasfuse nel Testo Unico per la sicurezza del lavoro (d.lgs 9.4.2008 n. 81).
Tale normativa, oltre a prevedere la figura del datore di lavoro e dei suoi ausiliari (preposto, direttore di cantiere) individua, come portatore di una specifica posizione di garanzia, anche la figura del committente, cui si aggiunge quella di altri garanti costituenti una sua promanazione: il responsabile dei lavori, il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione.
Come questa Corte ha avuto modo di rilevare, normalmente è il datore di lavoro il personaggio che riveste una posizione di vertice nel sistema della sicurezza, in quanto titolare del rapporto di lavoro e al contempo titolare dell’impresa esecutrice dei lavori, con compiti quindi organizzativi ed economici inerenti l’attività dell’impresa che lo vedono direttamente coinvolto anche nella predisposizione ed osservanza delle misure antinfortunistiche. Tuttavia, nella previsione di una pluralità di soggetti che concorrono al rafforzamento della sicurezza del lavoro, il d.lvo n. 494/1996 introduce, affiancandola al datore di lavoro con i suoi collaboratori, la figura del committente. Anche il committente, che assume l’iniziativa della realizzazione dell’opera, provvedendo a programmarla e a finanziarla, sebbene l’esecuzione venga affidata a terzi, assume una quota di responsabilità in materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi accanto al datore di lavoro nella titolarità degli obblighi di protezione, con la possibilità demandarli ad altra figura, questa ausiliaria, del responsabile dei lavori, anziché occuparsene direttamente. Per gli aspetti tecnici delle competenze facenti capo al committente in materia antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile dei lavori, può avvalersi di figure specializzate, distinte per la fase della progettazione e della realizzazione dei lavori, che sono appunto il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione (denominati, il primo, coordinatore per la progettazione, il secondo, coordinatore per l’esecuzione dei lavori)..
Tali figure professionali devono essere dotate di particolari requisiti (art. 10 d,lvo 494/1996 ) ed assolvono compiti delicati, quali, per il coordinatore in fase di progettazione, redigere il piano di sicurezza e di coordinamento e predisporre il fascicolo contenente le informazioni utili per la prevenzione e la protezione dai rischi (art. 4 cit d.lvo); per il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione: 1) controllare l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro; 2) verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza redatto dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice come piano di dettaglio, ed assicurarne la coerenza col PCS; 3) adeguare il piano di coordinamento e sicurezza e il fascicolo di valutazione dei rischi in relazione all’evoluzione dei lavori e all’eventuali modifiche intervenute; 4) organizzare tra i datori di lavoro operanti nello stesso cantiere la cooperazione ed il coordinamento delle attività all’interno del cantiere; 5) infine segnalare al committente o al responsabile dei lavori le inosservanze delle disposizioni di legge riferite ai datori di lavoro o ai lavoratori autonomi, previa contestazione scritta alle imprese ed ai lavoratori autonomi interessati (art. 5 d.lvo n. 96 /494.).Trattasi di figure, quelle dei coordinatori per la sicurezza, le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori, (sez. 4, n. 7443 del 17/01/2013 Rv. 255102, sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008. Rv. 240393).
La designazione dei tecnici coordinatori per la sicurezza nelle due fasi della progettazione e dell’esecuzione può esonerare da responsabilità il committente o, per lui, il responsabile dei lavori, se nominato, fatta salva la verifica dell’adempimento da parte dei responsabili per la sicurezza degli obblighi ad essi facenti carico, fra i quali, in primis, la redazione del piano di coordinamento e di sicurezza e del documento di valutazione dei rischi per il coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e, per il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, l’azione di coordinamento e di controllo circa l’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento e la verifica del piano di sicurezza . Così individuato il contenuto dei compiti facenti carico al committente, nel panorama delle posizioni di garanzia per la prevenzione degli infortuni sul lavoro quella del committente può definirsi, come ripetutamente affermato in diverse pronunce di questa Corte, una funzione tecnica di “alta vigilanza” sulla sicurezza del cantiere che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non il puntuale e continuo controllo di esse, né la specificità di determinati rischi connessi alla particolarità o complessità della lavorazione, controlli facenti capo ad altri soggetti, destinatari di ben più pregnanti obblighi di protezioni, quale il datore di lavoro, il preposto, il direttore di cantiere).
Con la nomina dei coordinatori per la sicurezza, il committente trasferisce tale funzione di alta vigilanza a dette figure che assumono gli obblighi al medesimo facenti carico dimodoché il committente rimane titolare di una posizione di garanzia limitata alla verifica che il tecnico nominato adempia al suo obbligo (sez quarta n. 37738 del 28.5.2013, rv 256637, imp. Gandolla). Difatti, secondo l’art. 93 9.4.2008 n. 81 (testo Unico in materia della salute e della sicurezza) “ il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori”.
Così delineata la posizione di garanzia del committente, passando all’esame del caso di specie, osserva questo Collegio che C.L. era, all’epoca dei fatti, amministratore unico della Fe.Ma. s.r.l. società committente dei lavori per la costruzione di una palazzina di civile abitazione appaltati alla I. s.r.l., la quale li aveva a sua volta subappaltati alla G&D Costruzioni, per quanto riguarda le opere di muratura, e alla società PJ. COSTRUZIONI srl, di cui era dipendente il lavoratore deceduto, per quanto riguarda le opere di intonacatura e verniciatura.
E’ dunque evidente che la società rappresentata dal C.L. si era limitata a conferire l’incarico per la costruzione senza prendere parte ad essa. Il C.L., nella sua qualità di legale rappresentante della società committente, aveva peraltro nominato il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, funzioni conferite entrambe all’ing Po., divenuto quindi destinatario degli obblighi previsti dagli art. 4 e 5 d.lvo 494/1996 (trasfusi negli art. 91 e 92 del d.lgs n. 81/2008).
Di conseguenza, data la totale estraneità alla realizzazione dell’opera e considerata comunque la presenza di un tecnico che rappresentava la committenza, destinatario degli obblighi di protezione previsti a carico delle figure dei coordinatori responsabili della sicurezza, nessun addebito può essere mosso al C.L..
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio limitatamente alla posizione del predetto imputato per non aver commesso il fatto.
Tale epilogo decisorio esonera il Collegio dall’esame del secondo motivo dedotto dalla difesa di C.L. concernente il mancato riconoscimento della attenuante del risarcimento de danno.
2. Quanto al ricorso di M.M., amministratore unico della ditta I., i motivi 1-4 – tramite i quali si contesta la ritenuta responsabilità dello stesso in relazione all’incidente verificatesi stante la sua qualifica di Direttore tecnico del cantiere – devono ritenersi infondati.
Innanzitutto, come risulta dall’imputazione e dalla stessa sentenza impugnata, il predetto viene considerato responsabile del reato attribuitogli in quanto subcommittente. Difatti all’epoca dei fatti il M.M. era l’amministratore unico della I. cui la Fe.Ma. aveva commissionato la costruzione della Palazzina destinata a civile abitazione. Per l’esecuzione di detta opera, il M.M. aveva subappaltato i lavori a due imprese la G&D e la PJ., mantenendo però un controllo sulla realizzazione dell’opera quale Direttore Tecnico del Cantiere.
Ora, a prescindere da tale denominazione che non trova riscontro nei testi legislativi, ciò che rileva è che lo stesso sia qualificabile come sub committente/subappaltatore e, quindi, destinatario di specifici obblighi di vigilanza sulla sicurezza dei lavori effettuati dalla imprese subappaltatrici. Obblighi comprensivi anche di una valutazione circa l’adeguatezza del piano operativo di sicurezza adottato dalle stesse. E nel caso di specie certamente è mancata una approfondita valutazione del POS della PJ.: tale documento infatti, come già si è detto, non conteneva alcuna previsione di misure di prevenzione dai rischi inerenti le lavorazioni – come appunto la intonacatura – da effettuarsi in prossimità delle aperture prospicienti le trombe degli ascensori ma soltanto delle generiche previsioni relative al rischio di caduta dall’alto, nonostante la prevedibilità di cadute nel vuoto in prossimità delle aree di sbarco dell’ascensore, non ancora posizionato, soprattutto in relazione alla specifica attività di intonacatura.
Quanto alla sussistenza della responsabilità del committente appaltatore nonostante la nomina di specifiche figure preposte alla sicurezza del cantiere, e i profili di diritto intertemporale, si richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale in tema di prevenzione degli infortuni, l’appaltatore che procede a subappaltare l’esecuzione delle opere non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro ciò neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori. Egli continua ad essere responsabile del rispetto della normativa antinfortunistica qualora, come nel caso di specie, eserciti una continua ingerenza e controlli la prosecuzione dei lavori (Cass. Sez. III n. 50996/2013 RV 258299; Cass. Sez. IV n. 7954/2014 RV 259274).
Ed infatti, come messo in evidenza nella sentenza di appello, il M.M. non solo effettuava personalmente sopralluoghi in cantiere, ma vi mandava quotidianamente il suo dipendente, il geom. Pa., il quale si occupava di redigere il giornale di cantiere, di tenere i contatti con i fornitori e di controllare le lavorazioni svolte. Dunque non si può affermare, come vorrebbe la difesa, che il M.M. non svolgesse alcuna funzione se non quella di acquisto e messa a disposizione del materiale.
Al pari infondati risultano il quinto ed il sesto motivo inerenti la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del M.M. e la verificazione dell’incidente nonché le modalità della caduta.
Va osservato in proposito che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa.
La Suprema Corte ha però costantemente precisato che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia eventualmente dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.
(Sez. 4, n. 23729 del 19/04/2005 Ud. Rv. 231736.)
“La prospettazione di una causa di esenzione da colpa connessa alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l’evento lesivo, che è conseguito, nella specie, dall’avere la vittima operato in condizioni di rischio note all’azienda e non eliminate da chi rivestiva la posizione di garanzia” (in motivazione sez 4 Sez. 4, n. 16890 del 14/03/2012 Rv. 252544).
Quindi l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcun effetto esimente per il datore di lavoro che abbia provocato l’infortunio per violazione delle prescrizioni in materia antinfortunistica, giacché la relativa normativa è appunto diretta a prevenire gli effetti della condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela è dettata.
Proprio in considerazione della finalità delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro testé illustrate, dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adozione delle misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore del tutto imprevedibile che presenta i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute; tale si è definito il comportamento posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, al di fuori delle prestazioni inerenti una determinata lavorazione – e pertanto al di là di ogni prevedibilità e possibilità di controllo per il datore di lavoro – ovvero, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in un qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
Per contro, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischi di siffatto comportamento (sez. 4, Sentenza n. 36339 del 2005).
Nel caso in esame, come condivisibilmente rilevato nella sentenza impugnata, deve escludersi la sopravvenienza di fattori causali legati al comportamento del lavoratore, idonei ad interrompere il nesso di causalità fra la condotta omissiva e l’evento.
Sia nella sentenza di primo grado sia in quella di appello, sono state descritte le circostanze e le ragioni dell’evento mortale avvenuto in data 30 luglio 2009 verso le 10:30. Sulla base delle deposizioni degli operai presenti nel cantiere è emerso, infatti, che la vittima, mentre effettuava l’intonacatura della aree di sbarco dell’ascensore al quarto piano, perdeva l’equilibrio precipitando nel vano scale in quel momento privo di alcuna protezione e perdeva la vita a seguito della caduta.
Quanto alla sussistenza del nesso eziologico la condotta dell’imputato e l’evento, occorre rilevare che sicuramente la caduta nel vuoto del L.L. è da collegarsi all’assenza di adeguate misure di protezione. Difatti, anche le cesate poste davanti alle porte del vano ascensore e, poi rimosse per effettuare l’intonacatura, erano del tutto inadeguate alla lavorazione in atto al momento dell’infortunio, in quanto troppo basse per evitare le cadute in caso di lavori in quota (cioè interventi operati ad un’altezza superiore ai due metri quali quello che stava effettuando il L.L.). Le stesse, essendo alte soltanto 1,10 metri, non sbarravano l’intero vano ascensore per tutta la sua altezza ed inoltre, essendo costituite da tavole inchiodate al muro ai lati delle porte in senso orizzontale o verticale, non erano idonee a contrastare cadute accidentali di persone di medio peso. Questa manchevolezza è da addebitarsi ad una deficienza del POS della PJ. il quale, come già accennato, non prevedeva specifiche misure di protezione contro il rischio di caduta nel vuoto durante le operazioni di intonacatura anche delle aree di sbarco dell’ascensore; POS che il M.M., nella sua qualità di sub committente- appaltante avrebbe dovuto controllare facendo in modo che, durante l’intonacatura delle predette aree, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto tramite parapetto munito di tavole fermapiede ovvero altrimenti sbarrate (così come prescritto dall’art. 146 D.Lvo 81/2008).
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto sussistente il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell’odierno imputato e l’infortunio che ha condotto al decesso del L.L.. Quanto al settimo ed ultimo motivo di ricorso inerente la mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., la Corte di appello motiva la mancata concessione dell’attenuante del risarcimento del danno col rilievo che “la somma conferita ai familiari della vittima non corrisponde alle tabelle approvate dal Tribunale di Milano ed utilizzate ormai in tutta Italia come base di indennizzo”. I rilievi mossi dalla difesa del ricorrente circa il carattere ampiamente satisfattorio dell’importo corrisposto in rapporto ai criteri di liquidazione previsti dalle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano, non forniscono indicazioni sufficienti: la difesa ha rilevato come la somma versata dagli imputati agli eredi del lavoratore deceduto, euro 300.000,00 sia ampiamente sattisfattoria in rapporto alle tabelle che prevedono una somma addirittura inferiore; tuttavia non vengono indicati i minimi e i massimi delle tabelle di liquidazione del danno, né viene specificato con riguardo a quale livello di determinazione fra i due estremi viene effettuata la comparazione, ciò al fine di consentire la valutazione della congruità del risarcimento.
Per contro, la sentenza impugnata, sia pure con riguardo al motivo concernente la subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale, ha evidenziato che le tabelle in esame indicano somma complessivamente di gran lunga maggiori di quella versata e che, quindi, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, il danno non è stato completamente risarcito.
Il motivo, anche per la sua genericità, deve dunque essere disatteso.
3. Quanto al ricorso presentato dalla difesa del P.F., il primo motivo con il quale si contesta il riconoscimento in capo allo stesso di una posizione di garanzia quale preposto di fatto appare infondato. Come è noto, infatti, in tema di prevenzione degli infortuni, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione. Di conseguenza egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (ex multis Cass. Sez. IV n. 9491/2013 RV. 254403).
Orbene tale qualifica – di preposto o capocantiere – dev’essere attribuita, più che in base a formali qualificazioni giuridiche o alla sussistenza di specifiche deleghe, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte dal soggetto all’interno del cantiere. Ne consegue che chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato, per ciò stesso, tenuto all’osservanza ed all’attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da parte dei singoli lavoratori (Cass. Sez. IV n. 35666/2007 RV 237468).
In altri termini, per quanto qui interessa, risponde della violazione delle norme antinfortunistiche non solo colui il quale non le osservi o non le faccia osservare essendovi istituzionalmente tenuto, ma anche chi, pur non avendo una veste istituzionale formalmente riconosciuta, si comporta di fatto come se l’avesse e impartendo ordini nell’esecuzione dei quali il lavoratore subisca danni per il mancato rispetto della normativa a presidio della sua sicurezza (Cass. Sez. IV n. 43343/2002 RV 226339).
Orbene, nel caso di specie è stata indubbiamente accertata la concreta ingerenza da parte dell’imputato – ancorché privo di attribuzioni formali o deleghe all’interno dell’organizzazione del cantiere – nell’attività della PJ. cui, peraltro, la G&D forniva assistenza, come risulta dal giornale di cantiere, per la movimentazione del materiale necessario tramite la gru.
In particolare, come si evidenzia nell’impugnata sentenza ed in quella di primo grado, i lavoratori della PJ. hanno riferito che le disposizioni sulle lavorazioni erano loro impartite dal geometra Ba. che le riceveva dal P.F. ovvero, in caso di assenza del predetto geometra, direttamente dall’imputato. Né si può affermare che il P.F. si sia limitato a prendere atto di un’attività, quella di intonacatura, decisa ed autonomamente gestita dagli operai della PJ. atteso che, come risulta dalle suddette deposizioni, egli stesso dette le indicazioni sulle misure delle porte per apporre i paraspigoli.
Peraltro un aspetto che vale la pena richiamare è la presenza del P.F. presso il cantiere il giorno dell’incidente nonostante i lavori di muratura – di competenza della G&D – fossero terminati e per la movimentazione del materiale necessario per l’intonacatura fosse necessaria solo la presenza del gruista. Ciò è indice inequivocabile del ruolo di fatto svolto dall’imputato, quale capocantiere di fatto e punto di riferimento anche degli operai dell’altra ditta subappaltatrice.
Del resto, i numerosi testi sentiti in dibattimento sono stati concordi nel riferire delle sue sollecitazioni a rimettere le sbarre di protezione alle aperture del vano ascensore, una volta finita l’intonacatura, della sua costante presenza in cantiere e della sua immediata reperibilità quale referente cui comunicare la notizia del tragico accadimento.
Tutti questi elementi hanno giustamente condotto la Corte di appello a ritenere che gli operai della PJ. incaricati dell’intonacatura abbiano svolto la loro attività anche con riferimento all’area di sbarco degli ascensori secondo una loro operatività ma sempre seguendo indicazioni impartite dal P.F.. Dunque quest’ultimo deve considerarsi anche nei confronti di tali lavoratori titolare di una posizione di garanzia e quindi responsabile di eventuali infortuni loro accorsi.
Quanto alla contraddittorietà delle deposizioni dei dipendenti della PJ. lamentata dal ricorrente è appena il caso di evidenziare l’infondatezza di tale censura. Il ricorrente vorrebbe una rivalutazione di tali elementi di prova, come noto, preclusa al giudice di legittimità qualora, come nel caso in esame, la decisione del giudice di merito risulti fondata su considerazioni non manifestamente illogiche o contraddittorie. Tali deposizioni, infatti, sono state valutate coerenti ed attendibili dal giudice di prime cure e dalla Corte di appello sulla base di argomentazioni del tutto logiche e di molteplici riscontri probatori.
Inammissibile risulta invece la seconda doglianza mossa dalla difesa del P.F. in relazione alla quantificazione della provvisionale. Come è noto, infatti, la pronuncia circa l’assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione dell’ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice del merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto. Ne consegue che la relativa statuizione non è impugnabile per cassazione (Cass. Sez. III n. 18663/2015 RV 263486).
4. Passando alla posizione della G&D, il ricorso dalla stessa presentato è infondato.
Ai sensi del D.Lgs. 231/01, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo dello stesso (lett. a ) o da persone sottoposte alla direzione/vigilanza di una dei predetti soggetti (lett. b) (art. 5).
Come è noto, la giurisprudenza lega il requisito dell’interesse, da valutarsi ex ante, agli obiettivi strategici dell’impresa perseguiti nonostante la consapevolezza della assenza di mezzi tecnici e di adeguata formazione ed esperienza nonché delle proprie lacune operative: quindi mettendo a rischio, in tal modo, la salute dei lavoratori impiegati. Il vantaggio, invece, è connesso alla dimostrazione di rilevanti corrispettivi economici riscontrabili tramite l’esame del fatturato.
Il profilo dell’interesse/vantaggio per l’ente riveste una notevole importanza in quanto, dato il tenore letterale della disposizione, l’evento dannoso deve essere il risultato della mancata adozione di specifiche misure di prevenzione a fronte di un interesse rilevante dell’ente a porre in essere l’attività pericolosa nonostante la consapevole condotta colposa. Ciò significa che la mancata adozione delle misure di prevenzione deve aver garantito all’ente un vantaggio sia in termini di concreto risultato economico dell’attività posta in essere senza le dovute cautele sia, e soprattutto, in termini di risparmio dei costi attuato mediante l’omissione delle misure in questione.
In altri termini il giudice, ai fini della responsabilità dell’ente, deve stabilire se la condotta di chi ha cagionato l’infortunio sia stata o meno determinata da scelte effettivamente rientranti nella sfera di interesse dell’ente o se abbia comportato un beneficio alla società sia in termini assoluti – cioè con riguardo ai valori economici – sia rispetto alle dimensioni della singola impresa, all’impatto sul risparmio dei costi ed al correlativo potenziale guadagno.
Orbene, nel caso di specie, premesso che il P.F., quale preposto di fatto, rientra nelle categorie menzionate dall’art. 5 del Dlgs 231/01, risulta sussistere l’interesse o il vantaggio dell’ente ( società G& G Costruzioni s.r.l.) in relazione al reato colposo allo stesso addebitato.
Difatti, come condivisibilmente osservato nella sentenza impugnata, vi era un evidente interesse della predetta impresa ad una celere ultimazione del lavori subappaltati. Invero tale interesse deve considerarsi insito nella natura del contratto di subappalto concluso con la I. s.r.l., trattandosi di contratto “ a corpo”, non in “economia”, quindi con pagamento a stato avanzamento lavori. Come è facile intuire, infatti, tale tipologia di contratto – che comporta il pagamento, non sulla base delle ore impiegate, bensì ad opera finita o in base agli stati di avanzamento lavori – spinge l’impresa ad accelerare i tempi di lavorazione al fine di concludere velocemente i lavori ottenendone il pagamento e di impiegare le proprie risorse in altre commesse in corso.
Ebbene sotto quest’angolo visuale, il fatto che la G&D s.r.l. avesse già terminato le opere murarie di sua competenza, posto in evidenza dalla difesa, poco rileva. A ben vedere, infatti, tale circostanza non esclude l’interesse, posto che altro compito affidatole era quello di prestare assistenza per la movimentazione dei materiali necessari per l’intonacatura, lavoro subappaltato, sempre con le stesse caratteristiche di contratto a corpo” , dalla I. alla PJ. costruzione s.r.l…
In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente all’imputato C.L., mentre i ricorsi di M.M., P.F. e G& G s.r.l. devono essere rigettati.
Segue per legge la condanna dei predetti ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione, in solido, delle spese processuali in favore delle parti civili che si liquidano come da dispositivo
P.Q.M.:
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C.L. per non aver commesso il fatto. Rigetta i ricorsi di M.M., P.F. e di G& D s.r.l. e li condanna al pagamento delle spese processuali nonché, in solido, alla rifusione delle spese processuali in favore della costituite parti civili che liquida in complessive 4.500,00, euro, oltre accessori come per legge Così deciso in Roma il 23.2.2016
FONTE: Cassazione Penale
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