Fatto:
1. Con sentenza resa in data 23 marzo 2015, la 3 Sezione penale della Corte d’appello di Torino, in riforma della sentenza con la quale il Tribunale di Asti, l’8 luglio 2009, aveva assolto R.C. perché il fatto non costituisce reato, lo condannava alla pena di tre mesi di reclusione – previa concessione delle attenuanti di cui agli artt. 62- bis e 62 n. 6 cod.pen., prevalenti sulla contestata aggravante, e con concessione dei doppi benefici di legge – in relazione al reato a lui contestato ex art. 589, commi 1 e 2, cod. pen., commesso in Buttigliera d’Asti il 28 ottobre 2006 in danno di D.A..
Oggetto del processo, nel quale il R.C. risponde del reato a lui ascritto quale direttore dello stabilimento della F. Lubrificanti s.p.a. sedente in Buttigliera d’Asti, é un infortunio verificatosi in occasione di un’operazione di verniciatura di due serbatoi dell’impianto antincendio ivi presente. Per l’esecuzione di detta lavorazione era stato noleggiato un autocarro dotato di piattaforma elevabile presso la ditta di G.A., fratello della vittima; dell’esecuzione del lavoro venivano incaricati dal R.C. D.A., G.A. e A.C., tutti e tre dipendenti della F. Lubrificanti. L’D.A. e l’G.A. salivano sulla piattaforma elevabile senza indossare le cinture di sicurezza; l’D.A. manovrava l’impianto per elevare la piattaforma, nel tentativo di portarla sulla parte retrostante dei due serbatoi, tentativo che riusciva dopo alcune ripetizioni della manovra; successivamente però la base del cestello elevabile si abbassava ed entrava in contatto con i due serbatoi. L’D.A. cercava di svincolare il cestello, rimasto bloccato, dapprima con un braccio, poi – dopo avere fatto scendere l’G.A. dal cestello e avendolo fatto posizionare sulla sommità di uno dei serbatoi – cercando di manovrare sui comandi dell’impianto. La forza impressa con la manovra faceva però salire il cestello fino alla sommità dei serbatoi, quindi lo faceva liberare in modo improvviso, creando un effetto “catapulta”; il repentino sblocco del cestello faceva sbalzare l’D.A. fuori dello stesso e, nonostante il tentativo del lavoratore di aggrapparsi a una maniglia di plastica, ne cagionava la caduta al suolo e quindi il decesso.
Al R.C. é mosso l’addebito di avere cagionato il decesso dell’D.A. per avere omesso di fornire ai dipendenti l’istruzione e l’addestramento necessari per l’esecuzione della lavorazione e per la prevenzione dei rischi connessi; per avere omesso di predisporre un servizio di vigilanza mediante preposti, che consentisse l’adozione delle corrette procedure d’intervento; e per avere omesso di verificare che l’impianto fosse dotato di sufficienti dispositivi di sicurezza individuale, in relazione a quanto previsto dall’allora vigente art. 41 D.Lgs. 626/1994.
Il ribaltamento della decisione di primo grado, conseguente ad appello proposto dal Pubblico ministero, era dovuto al fatto che, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale nella sentenza assolutoria, doveva escludersi la qualificazione del rapporto fra la F. Lubrificanti e il noleggiatore dell’impianto come contratto d’appalto, trattandosi di fornitura con nolo “a freddo” e di operazione che la vittima eseguiva in assenza di una posizione di autonomia organizzativa, ma quale dipendente della ditta del R.C.. Ciò posto, secondo la Corte di merito, le prove assunte avevano confermato che l’D.A. e l’G.A. non avevano ricevuto alcuna formazione e nella convinzione di operare comunque in sicurezza grazie al parapetto del cestello; che sul cestello vi era solo una cintura di sicurezza, a fronte del fatto che vi operassero due lavoratori; che la tipologia di lavoro necessitasse la designazione di un preposto che esercitasse la vigilanza sul compimento delle operazioni in sicurezza; che il bagaglio d’esperienza personale dell’D.A. non fosse tale da rendere inutile una specifica attività di formazione in suo favore; che comunque la lavorazione in esame era stata fatta eseguire dal R.C. non già, in regime d’appalto, a una ditta specializzata che ne curasse per intero l’esecuzione, ma in economia, ossia noleggiando l’impianto presso una ditta esterna e provvedendo all’impiego di risorse umane interne alla propria ditta, ossia di dipendenti sprovvisti di adeguata formazione su lavorazioni così rischiose e adeguata informazione sui connessi pericoli.
2. Avverso la prefata sentenza ricorre il R.C., con un primo atto a sua firma e con la successiva presentazione di motivi aggiunti a cura del suo difensore di fiducia.
2.1. Iniziando dall’atto personalmente sottoscritto dall’imputato, esso consta di un unico motivo, con il quale si censura vizio di motivazione nella sentenza impugnata, riferito, in particolare, alla questione della presunta carenza di formazione ed esperienza della vittima, laddove – lamenta l’esponente – sono state invece del tutto trascurate dalla Corte territoriale le deposizioni dei testi A. e G.A.: secondo il teste A., l’D.A. era soggetto sicuramente esperto nelle lavorazioni del tipo di quella in esame, come era stato possibile constatare un mese prima, in occasione di analogo utilizzo della piattaforma in quota, per la sostituzione di vetri a un’altezza di 13 metri; il teste G.A., dal canto suo, ha raccontato come l’D.A. avesse provato a eseguire le manovre di scostamento del cestello dai serbatoi, descrivendo le operazioni compiute dalla vittima e sottolineando come esse presupponevano notevole esperienza nell’impiego dell’impianto, e oltretutto riferendo che l’D.A., invitando l’G.A. a uscire dal cestello e a posizionarsi sulla sommità di un serbatoio, gli avesse praticamente salvato la vita sulla scorta della sua esperienza e delle sue conoscenze dell’impianto, prevedendo il rischio di un possibile effetto “catapulta” come quello poi concretizzatosi. Quanto, poi, all’individuazione di un preposto, che la Corte ha ritenuto essere stata omessa dal R.C., l’esponente evidenzia come in realtà il preposto fosse proprio l’D.A., in virtù della sua esperienza nell’uso dell’impianto, sicuramente superiore rispetto agli altri dipendenti della ditta. Si duole infine il ricorrente del fatto che la Corte di merito abbia omesso ogni valutazione in ordine al comportamento colposo della vittima e all’idoneità dello stesso a interrompere il nesso causale tra la condotta ascritta al R.C. e l’evento mortale.
2.2. L’atto successivamente depositato, a firma del difensore di fiducia dell’imputato, consta di due motivi aggiunti.
2.2.1. Con il primo motivo si denuncia vizio di motivazione in riferimento all’omessa valutazione della deposizione del teste A., con argomenti che richiamano nella sostanza quelli svolti sul punto nel ricorso presentato personalmente dall’imputato, ai quali quindi si può fare rinvio.
2.2.2. Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione in riferimento al c.d. giudizio controfattuale operato dalla Corte di merito in relazione alla condotta omissiva contestata al R.C. con riferimento all’omessa formazione e istruzione dell’D.A., laddove la condotta di quest’ultimo si inserì in modo sicuramente determinante nell’iter causale dell’evento, non avendo l’D.A. utilizzato la cintura di sicurezza presente sull’impianto e avendo altresì insistito in modo maldestro nell’eseguire le manovre volte a sbloccare il cestello; nonché con riferimento alla mancata nomina di un preposto, laddove tale figura doveva identificarsi, nella specie, proprio nella vittima.
Diritto:
1. Il ricorso é infondato, in tutti i motivi in cui esso é articolato.
Può in primo luogo dirsi pacifico che fu il R.C. a curare l’esecuzione della lavorazione: ossia a noleggiare l’autocarro presso la ditta di G.A. e ad incaricare i tre dipendenti sopra indicati (fra cui la vittima) di eseguire la pitturazione dei serbatoi, ossia un’operazione di manutenzione in quota.
Ciò posto, va preliminarmente chiarito che appare superata, ed é comunque irrilevante, la questione della configurabilità o meno di un rapporto qualificabile come contratto d’appalto tra la F. Lubrificanti e la ditta che noleggiò il macchinario (facente capo al fratello della vittima). Essendo pacifico che tale rapporto si risolse in realtà nel c.d. nolo a freddo dell’autocarro munito di piattaforma elevabile, senza cioè che la ditta noleggiatrice mettesse a disposizione uno o più propri dipendenti, deve considerarsi che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il soggetto titolare dell’impresa che noleggia macchinari (eventualmente mettendo a disposizione anche un soggetto addetto al loro utilizzo) non ha l’obbligo di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione che l’appaltatore di lavori deve adottare in favore dei lavoratori alle sue dipendenze, e pertanto non assume, nei confronti di questi ultimi, una posizione di garanzia in relazione ai rischi specifici connessi all’ambiente di lavoro nel quale essi sono chiamati ad operare, non esercitando alcuna attività produttiva (Sez. 4, n. 23604 del 05/03/2009, Cossi e altri, Rv. 244216).
Quanto precede rende evidente che, rispetto alla posizione di D.A., che era dipendente della F. Lubrificanti, il R.C. aveva pienamente assunto, in tema di prevenzione degli infortuni, le responsabilità derivanti dalla sua posizione di garanzia, quale direttore dello stabilimento e delegato alla sicurezza del lavoro, nonché la gestione del rischio poi concretizzatosi.
Perciò, conviene preliminarmente verificare se all’assunzione di dette responsabilità abbia fatto riscontro, nel caso del ricorrente, l’osservanza dei corrispondenti doveri o se egli abbia omesso di ottemperare a quelli indicati nell’Imputazione: ossia il dovere di formazione e di informazione dei dipendenti, ed in specie dell’D.A. , con riferimento al tipo di operazione a lui affidata; il dovere di designare un preposto ai fini dell’esecuzione in sicurezza dell’operazione (verificando altresì se tale incarico potesse essere assunto direttamente dall’D.A.); il dovere di curare che fossero disponibili i dispositivi di protezione individuale di cui all’art. 41, D.Lgs. 626/1994 (nella specie, le imbracature di sicurezza).
2. Quanto al primo profilo, risulta ampiamente e congruamente motivato nella sentenza impugnata il convincimento della Corte di merito in ordine all’assoluta insufficienza della formazione e informazione dei dipendenti, e in specie dell’D.A., da parte del R.C., in riferimento al rischio insito nell’operazione che costò la vita al dipendente: a tal fine valgono le considerazioni svolte dalla Corte territoriale a pag. 7 della sentenza in ordine alla deposizione dello stesso fratello della vittima e alla carenza di elementi specificamente riferiti al rischio in esame nella documentazione fornita al personale (c.d. manuale ABC della sicurezza); ma, anche, in ordine al fatto che l’avere eseguito in una singola occasione un’operazione analoga, per tipologia e rischio, a quella a lui fatale (la sostituzione di vetrate avvenuta un mese prima del fatto) non rendeva superflua la formazione del dipendente rimasto vittima dell’infortunio (sul punto, a differenza di quanto denunciato nei motivi di ricorso, la Corte ha svolto brevi ma puntuali considerazioni a pag. 8 della sentenza). A fronte di ciò, deve ricordarsi che, in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’attività di formazione del lavoratore, alla quale é tenuto il datore di lavoro, non é esclusa dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge (Sez. 4, n. 21242 del 12/02/2014, Nogherot, Rv. 259219).
Da tali considerazioni deriva anche la soluzione riferita alla seconda questione, ossia quella relativa alla presenza o meno di un preposto sul luogo dell’infortunio, presenza che viene affermata dal ricorrente, che individua nella stessa vittima colui che in concreto aveva assunto tale qualifica. Invero, come si é detto (e come chiaramente argomentato nella sentenza impugnata), é emerso che l’D.A. non aveva una specifica formazione, né una specifica esperienza nella conduzione di impianti del tipo di quello utilizzato il giorno dell’incidente, né tanto meno una conoscenza dei rischi connessi a simili operazioni, e non poteva quindi assumere una posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire; perciò egli non poteva comunque assimilarsi a un preposto, neppure in via di fatto (sul punto si veda fra le altre Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237468).
3. Quanto all’addebito di non aver curato la presenza di dispositivi di protezione individuale nella piattaforma su cui l’D.A. e l’G.A. dovevano operare, é bensì emerso che era disponibile una sola cintura di sicurezza (e non due, a fronte dell’impiego di due lavoratori), che peraltro l’D.A. non usava neppure quando era rimasto solo sul cestello dopo averne fatto uscire l’G.A.; ma soprattutto – e di ciò, come si é detto poc’anzi, la sentenza impugnata offre adeguata contezza – é emerso che né l’D.A., né l’G.A. erano stati formati né informati circa l’obbligo di indossare la cintura di sicurezza a fini prevenzionistici, e che anzi essi ritenevano che a tal fine fosse sufficiente la presenza di un parapetto nel cestello, protezione sicuramente non idonea a prevenire il rischio concretizzatosi nel caso specifico (infatti il cestello, dopo essere stato liberato bruscamente, si era ribaltato facendo cadere l’D.A.).
Sul piano del giudizio controfattuale operato dalla Corte di merito, deve parimenti convenirsi con le argomentazioni svolte nell’impugnata sentenza, nella premessa che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261103).
4. Ciò posto, dallo svolgimento dei fatti oggetto dell’impugnata sentenza emerge con chiarezza che, se il R.C. avesse adeguatamente formato e soprattutto informato l’D.A. e l’G.A. in ordine al corretto modo di eseguire l’operazione, ai rischi che essa comportava e a quali fossero gli accorgimenti per evitarli, sicuramente i due lavoratori avrebbero potuto operare in sicurezza e non avrebbero corso i rischi cui invece si trovarono esposti e che si concretizzarono nell’incidente; se il R.C. avesse incaricato un preposto, provvisto di adeguata preparazione, di attendere ed assistere all’operazione, costui avrebbe potuto impedire che quest’ultima venisse eseguita in modo pericoloso e azzardato, come invece accadde; e se infine il R.C. avesse considerato la disponibilità di un solo dispositivo di protezione individuale sulla piattaforma, avrebbe avuto la possibilità di riconsiderare le modalità esecutive dell’operazione, anziché farla eseguire da due lavoratori, per di più completamente privi di formazione non solo sul corretto svolgimento di detta operazione, ma anche sui rischi connessi e su come prevenirli ed evitarli. In definitiva, se il R.C. avesse ottemperato ai doveri prevenzionistici discendenti della posizione di garanzia da lui assunta (e, quindi, del rischio da lui gestito), con ogni probabilità l’evento non si sarebbe verificato. Detto evento, del resto, rientrava sicuramente tra quelli intrinsecamente prevedibili per un’operazione, quale quella in corso al momento dell’evento e consistente in una manutenzione effettuata in quota, che implicava il pericolo di cadute dall’alto del personale all’uopo impiegato, pericolo in funzione del quale era del resto presente sulla piattaforma elevabile un apposito dispositivo di protezione individuale; é appena il caso di ricordare, al riguardo, che, in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell’evento – anche sotto il profilo causale – non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106).
5. Resta da dire dell’ultimo argomento sostenuto dal ricorrente e riferito all’omessa motivazione, da parte della Corte di merito, in ordine al contributo causale del comportamento negligente della vittima nel prodursi dell’evento mortale.
In realtà la Corte di merito fornisce adeguata motivazione sul punto (vds. pp. 9-10 sentenza impugnata). Può solo aggiungersi che, per pacifica giurisprudenza, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l’osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 – dep. 27/01/2015, Bonelli, Rv. 261946). Più precisamente, come recentemente chiarito dalla giurisprudenza apicale di legittimità, é interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento é “interruttivo” (per restare al lessico tradizionale) non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante é chiamato a governare. Tale eccentricità renderà magari in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento ma ciò é una conseguenza accidentale e non costituisce la reale ragione dell’esclusione dell’imputazione oggettiva dell’evento (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, non massimata sul punto).
Nel caso specifico, é di tutta evidenza che il contributo causale dell’D.A. al prodursi dell’evento é al più consistito in una sua imprudenza e negligenza nel manovrare l’impianto per liberarne il cestello, nonché nell’omettere di indossare la cintura di sicurezza; ma ciò era dovuto più che altro alla sua scarsa formazione nell’utilizzo dell’impianto e alla sua carente informazione sui rischi connessi all’operazione a lui affidata (ossia a condotte omissive imputabili al R.C.), e non si trattava sicuramente di comportamento abnorme nel senso sopra illustrato, non potendosi esso qualificare come eccentrico rispetto al rischio lavorativo gestito dall’odierno ricorrente.
6. Per le considerazioni suesposte il ricorso va dunque rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 22 aprile 2016.