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Cassazione Penale, Sez. 4, 7 gennaio 2016, n. 18200 – Triplice morte in luogo confinato durante le operazioni di bonifica: responsabilità

SentenzaFatto:
1. Nel primo pomeriggio del 26 maggio 2009 all’interno della raffineria gestita dalla S. s.p.a. a Sarroch, L.S., B.M. e D.M., dipendenti della ditta COMESA a.r.l., alla quale erano stati commissionati – tra gli altri – lavori di bonifica dell’impianto denominato MHC1, decedevano per asfissia da ridotta concentrazione di ossigeno in ambiente confinato dopo essere entrati nel serbatoio di accumulo D106, parte integrante del predetto impianto.
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Cagliari ha parzialmente riformato la pronuncia emessa all’esito di rito abbreviato dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Cagliari nei confronti di S.D., G.A.M., G.G., A.A., L.F. e della S. s.p.a. La Corte territoriale, a fronte della condanna dello S.D., del G.G. e del L.F., giudicati responsabili di aver cagionato con condotte cooperanti e per colpa il triplice omicidio, ha riconosciuto ai primi due imputati l’attenuante del risarcimento del danno e quindi ridotto la pena originariamente inflitta, determinandola in un anno e otto mesi di reclusione ciascuno, ed ha confermato ogni altra statuizione e quindi integralmente la condanna del L.F., quale corresponsabile delle morti, e le assoluzioni del G.A.M., dell’A.A. e della S. s.p.a.
Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito il 13.5.2009 l’impianto MHC1 era stati fermato per operazioni di manutenzione programmata ed erano state avviate le operazioni preliminari di bonifica che, secondo l’apposito manuale denominato Istruzioni di fermata e bonifica MHC1 nov. 2007 dovevano avvenire in tre fasi: un preliminare lavaggio a caldo degli accumulatori con idrogeno, con successivo raffreddamento e depressurizzazione; un lavaggio con azoto fino a raggiungere valori degli idrocarburi presenti nell’accumulatore inferiori all’1%; una bonifica con vapore, che nell’accumulatore D106 doveva avvenire prima che esso venisse aperto e messo in comunicazione con l’atmosfera circostante, e previa ciecatura – ovvero isolamento dell’accumulatore a mezzo dischi ciechi dalla sezione di reazione e dagli scambiatori. Nel complesso, tutte le operazioni dovevano avvenire con l’accesso all’accumulatore chiuso e quindi senza immissione di azoto con il passo d’uomo del serbatoio (ovvero il passaggio che permette l’accesso al serbatoio dell’accumulatore) aperto.
Tuttavia, a causa di un guasto meccanico il capoturno aveva disposto l’apertura dell’accumulatore già in atmosfera di azoto, onde verificare la presenza di idrocarburi in misura tale da dover procedere al loro drenaggio; sicché il 23 maggio operai della impresa CISA avevano proceduto all’apertura del passo d’uomo ed era stata svolta la ricognizione dei fluidi idrocarburici presenti, ritenuti di quantità non richiedente lo spurgo. Per procedere all’apertura del passo d’uomo era stato necessario tagliare la cerniera del medesimo e rimuovere la flangia di chiusura, che era stata appoggiata a lato dell’apertura; A.F. e S.DP., su disposizione del capoturno G.B., dopo aver inserito all’interno dell’accumulatore una manichetta che flussava azoto allo scopo di mantenere inerte l’ambiente interno, avevano posto una busta di nylon a guisa di chiusura del passo d’uomo, allo scopo di mantenere l’accumulatore in pressione di azoto ed evitare l’ingresso di ossigeno, che avrebbe potuto innescare miscele esplosive o incendiarie. L’utilizzo della manichetta era stato richiesto dalla assenza in quell’accumulatore di una linea dedicata per le operazioni di bonifica.
Chiuso nel modo indicato il passo d’uomo, i tre si erano allontanati, senza apporre alcuna segnaletica, non prevista dalle procedure, e delle operazioni eseguite era stata fatta annotazione nell’apposito programma informatico; inoltre il G.B. ne aveva riferito al capoturno entrante I.P..
Il 24 ed il 25 maggio erano state ultimate le operazioni di ciecatura.
Nel pomeriggio del 26 maggio L.S. si trovava in compagnia del collega V.R.P., in attesa del caposquadra G.M., che aveva detto loro di aspettarlo per fare le verifiche sull’accumulatore D106, quando si era allontanato; dopo qualche tempo il V.R.P. aveva ipotizzato che il L.S. si fosse portato nelle vicinanze dell’accumulatore D106 ed era andato a verificare, giungendo sino al passo d’uomo, ed affacciatosi da questo aveva scorto il L.S. esanime sul fondo dell’accumulatore ed aveva invocato soccorso, facendo accorrere i colleghi G.F. e B.M.. Il V.R.P. aveva indossato una maschera antigas; il B.M. si era sporto all’interno della cisterna, mentre il G.F. gli urlava di non entrare cercando di trattenerlo per le gambe, ma senza esito; sicché anche il B.M. era caduto all’interno dell’accumulatore, scorto dal G.F. mentre perdeva i sensi e cadeva a terra. Richiamati dalle grida d’aiuto erano giunti anche D.M. e M.P.; dopo aver saputo dei due colleghi all’interno dell’accumulatore il D.M. aveva indossato la mascherina antigas ed era entrato all’interno, perdendo i sensi e rimanendo esanime nell’accumulatore. Solo quando A.R., responsabile del reparto sicurezza della S., era intervenuto munito di autorespiratore con le bombole di ossigeno, erano iniziate le operazioni di recupero dei corpi dei tre operai dei quali, nonostante le manovre di rianimazione praticate per circa quaranta minuti dal personale medico e paramedico della S., veniva constatato il decesso.
3. I giudici territoriali hanno ritenuto accertato che lo S.D., quale direttore generale della S. s.p.a. e quindi datore di lavoro, il G.G. quale dirigente della raffineria, avevano cagionato i decessi perché avevano omesso di fornire alla ditta appaltatrice informazioni dettagliate circa il rischio specifico – costituito dalla presenza di azoto – esistente nell’ambiente di lavoro costituito dall’accumulatore D106 [art. 26, co. 1 lett. b) d.lgs. n. 81/2008] e circa il rischio derivante dalle interferenze fra i lavori delle diverse imprese coinvolte nella esecuzione dei lavori di bonifica e manutenzione dell’impianto MHC1, così mancando di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dei rischi [art. 26, co. 2 lett. b) d.lgs. n. 81/2008] ed inoltre avevano omesso di aggiornare il documento di valutazione dei rischi (DVR) a riguardo della diversa procedura di bonifica conseguente alla decisione di sottoporre l’accumulatore D106 a flusso d’azoto, successivamente alla sua ciecatura di isolamento e all’apertura del passo d’uomo ivi presente [art. 18, lett. z) d.lgs. n. 81/2008], nonché avevano omesso di rendere identificabile la natura del contenuto della manichetta di afflusso dell’azoto introdotta nell’accumulatore e quindi i rischi derivanti dall’avvicinamento e dall’ingresso in esso (art. 227 d.lgs. n. 81/2008) e di adottare la segnaletica di sicurezza imposta dal pericolo costituito dal flussaggio dell’azoto all’interno dell’accumulatore (art. 163 d.lgs. n. 81/2008); mentre dal canto suo il L.F., direttore tecnico e datore di lavoro perché legale rappresentante della COMESA a.r.l., aveva omesso di valutare adeguatamente i rischi connessi all’ingresso dei lavoratori all’interno degli accumulatori (artt. 17 e 28 d.lgs. n. 81/2008) e non aveva adeguatamente formato i medesimi sui rischi connessi a tale ingresso. In tale ricostruzione non veniva attribuita valenza risolutiva alla procedura di sicurezza prevista per la gestione dei rapporti tra la S. e le imprese appaltatrici, incentrata sulla procedura del cd. permesso di lavoro.
4. Avverso tale decisione ricorre per cassazione G.G., a mezzo dei difensori di fiducia, avv. Omissis.
4.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 43 cod. pen.
Rileva il ricorrente che gli stessi giudici di merito convengono in merito al fatto che l’adozione della procedura del permesso di lavoro, in forza della quale non può essere eseguita alcuna operazione che non sia previamente autorizzata, – procedura in linea con le best practices definite a livello internazionale nello specifico settore di operatività della S. s.p.a. – non é censurabile in quanto perfettamente conforme alle norme cautelari del settore; pertanto non può ritenersi motivo di addebito per colpa l’inadeguatezza o l’assenza di segnalazione, esistendo un sistema più efficace, incardinato sul permesso di lavoro. Né vale quanto asserito dalla Corte di Appello, secondo la quale il permesso di lavoro é uno strumento di organizzazione con le società appaltatrici mentre i segnali di pericolo avrebbero efficacia erga omnes, perché nella specie le regole prevenzionistiche da valutare sono proprio quelle inerenti al coordinamento con le appaltatrici.
4.2. Con il secondo motivo si reitera quanto appena rammentato e si aggiunge che il sistema dell’apposizione di segnali di pericolo é in concreto inattuabile perché ne implicherebbe un numero indefinibile. Né si comprende perché la segnalazione della presenza di azoto nell’accumulatore sarebbe stata più efficace rispetto al L.S. del divieto di accesso all’impianto derivante dall’assenza del permesso di lavoro. Nè avrebbe senso disciplinare le modalità di svolgimento di un’attività che è vietata; ed anzi si tratterebbe di regole contradditorie e quindi possibile fonte di fraintendimento. Inoltre la procedura incentrata sul permesso di lavoro é essa stessa una generale segnalazione di pericolo.
Si aggiunge che l’art. 163 d.lgs. n. 81/2008 prevede l’adozione di segnalazione di pericolo solo laddove i rischi non siano altrimenti fronteggiabili tramite misure organizzative, tra le quali deve annoverarsi il permesso di lavoro. Tanto implica l’erroneità del giudizio che vuole commessa la violazione dell’art. 227, co. 3 d.lgs. n. 81/2008, perché tale norma si applica solo nel caso in cui non vi sia la segnaletica di cui al Titolo V.
Inoltre é stato omesso di considerare che oltre alla procedura del permesso di lavoro erano previste riunioni di coordinamento, sicché non può ritenersi che le informazioni fossero veicolate solo attraverso il permesso di lavoro. Si rileva, infine, che l’immissione di azoto mediante manichetta non modificò l’ambiente dell’accumulatore, sicché é errato dire che ciò determinò un aumento del rischio.
4.3. Ulteriore censura mossa dagli esponenti asserisce che i giudici di merito hanno “forgiato delle regole prevenzionistiche sulla base di una valutazione ex post dell’accaduto”. In realtà, la particolarità dell’evento non poteva essere prevista ex ante e quindi non poteva essere fronteggiata con regole prevenzionistiche.
4.4. Si assume che anche a ritenere l’omesso aggiornamento dei sistemi di prevenzione in relazione alla consuetudine dei capiturno di discostarsi dalle procedure standard, esso non avrebbe alcun legame con l’evento verificatosi, determinato dalla imprevedibile violazione del divieto di accesso all’accumulatore non essendo stato rilasciato il permesso di lavoro. Si afferma, poi, che ai fini della valutazione dell’evitabilità dell’evento, non assume alcun rilievo che il passo d’uomo fosse chiuso con una busta di nylon piuttosto che con il coperchio in metallo; e ciò perché – come dà atto anche la Corte di Appello – entrambi avevano solo la funzione di chiudere a tenuta stagna l’accumulatore e non quello di interdire l’accesso di persone. Inoltre, anche la presenza della busta segnalava che le operazioni erano in corso e che quindi l’ambiente interno non era adeguatamente ossigenato. Pertanto, anche a ritenere le violazioni contestate, l’evento verificatosi non rappresenta una concretizzazione del relativo rischio.
4.5. Gli esponenti affermano che l’imputato ha posto in essere quanto può pretendersi dall’agente modello di riferimento – come dimostra l’assenza di addebiti circa le misure di sicurezza adottate dalla S. – e che non é esigibile il controllo da parte del direttore su ciascun lavoratore.
4.6. Viene censurato che la Corte di Appello abbia fatto erronea applicazione degli artt. 40, 41 e 43 cod. pen. risultando abnorme il comportamento tenuto dalle vittime; quanto al L.S., in rapporto alla estrema deviazione dalle procedure previste, per di più non sostenuta da una qualche motivazione attinente l’attività lavorativa; quanto al B.M. ed al D.M., il relazione alla derivazione del loro comportamento da quello abnorme del L.S. ed altresì dalla deviazione dalle regole cautelari che disciplinano anche l’attività di soccorso, alla quale peraltro non erano abilitati. Inoltre il pericolo di morte era ben avvertito da tutti, tanto che i colleghi presenti provarono più volte a non farli entrare nell’accumulatore. Si evoca, al riguardo, la categoria della colpa cd. per assunzione. In ogni caso eventuali carenze organizzative o di formazione in punto di soccorso sarebbero da ascrivere esclusivamente alla COMESA, come previsto dal DVR. Il comportamento alternativo lecito non avrebbe impedito l’evento.
4.7. Si deduce, infine, la violazione degli artt. 185 cod. pen. e dell’art. 2043 c.c. perché la Corte di Appello ha confermato l’ammissibilità della costituzione della parte civile della FIOM e della CGIL nonostante non sia stato provata l’ingiustizia del danno lamentato dalle stesse. Affermano gli esponenti che la perdita di credibilità e la lesione dell’Immagine delle organizzazioni sindacali possono non essere conseguenza diretta del reato perché dipendenti proprio dall’inefficienza dell’organizzazione sindacale.
5. Ricorre per cassazione S.D., con atto sottoscritto dal difensore, avv. Omissis.
5.1. Si deduce violazione degli artt. 27, co. 1 Cost., 2, co. 1 lett. b) d.lgs. n. 81/2008, 40, co. 2 cod. pen. e vizio motivazionale, per aver la Corte di Appello ritenuto sussistente la qualità di garante dell’imputato, siccome datore di lavoro, sulla scorta di una erronea applicazione del principio di effettività, che l’esponente deriva dall’art. 2, co. 1 lett. b) d.lgs. n. 81/2008. Questo, si  puntualizza nel ricorso, impone di attribuire la posizione datoriale a colui che esercita i poteri decisionali e di spesa il cui esercizio é necessario ma anche sufficiente ad evitare il verificarsi dell’evento che si é realizzato: “l’Identificazione della persona fisica in capo alla quale … (deve) ritenersi costituita la posizione di garanzia che la legge attribuisce al cd. datore di lavoro si snoda attraverso i seguenti passaggi cruciali: (i) in primo luogo, occorre definire quale evento concreto – e quale dinamica – si sia storicamente verificata; (ii) in secondo luogo, bisogna identificare l’esercizio di quale potere avrebbe effettivamente impedito il verificarsi di quell’evento; (iii) infine, si tratta di individuare la figura aziendale titolare dei poteri che, in tale determinata situazione concreta ed in relazione all’evento occorso nel caso di specie, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso, in virtù della titolarità di poteri decisionali e di spesa idonei a conferirle la responsabilità dell’azienda o di una sua unità produttiva, qualora si tratti di aziende di grandi dimensioni e con un’articolata partizione interna di ruoli e funzioni”
Ad avviso dell’esponente, la Corte di Appello é incorsa nella citata violazione di legge perché ha individuato, oltre al G.G., direttore dello stabilimento di Sarroch, anche nello S.D. il datore di lavoro sulla scorta di poteri irrilevanti ai fini della individuazione del garante primario con riferimento alla specifica unità produttiva e discostandosi dal principio di effettività, perché attribuisce valenza a dati meramente formali, quali l’avere il G.G. poteri di spesa limitati a 100.000 euro per operazione e il dover essere questi autorizzato specificamente in materia antinfortunistica a stipulare i relativi contratti chiedendo alle superiori funzioni aziendali i mezzi finanziari in caso di necessità eccedenti il predetto valore. Rimarca l’esponente che il limite di spesa concerneva la singola operazione ma che non vi era un tetto complessivo, sicché il G.G. era in grado di gestire in autonomia la singola unità produttiva; d’altronde il ricorso all’autorizzazione delle funzioni superiori era soltanto un’ipotesi, non verificatasi né rilevante rispetto al caso concreto verificatosi, nel quale “la dinamica in ipotesi costituente l’antecedente causale dell’evento é pacificamente confinata entro il perimetro dei poteri organizzativi e decisionali costituiti mediante procura in capo al direttore dello stabilimento”. Si contesta, poi, che lo S.D. si fosse ingerito nell’organizzazione del sistema di sicurezza del lavoro criticando l’interpretazione che la Corte di Appello ha dato del fatto che le procedure di sicurezza erano state adottate a doppia firma e che il coordinatore per la sicurezza fosse stato nominato nell’ambito del vincolo discendente dalla convenzione con il professionista stipulata dallo S.D.. In ogni caso, si conclude, l’ipotetica ingerenza non si sarebbe esercitata in occasione dei lavori nel corso dei quali si é verificato il gravissimo sinistro che occupa.
6. Con separato atto, a firma dell’avv. Omissis, si propone ricorso ancora nell’interesse dello S.D..
6.1. Con un primo motivo si deduce violazione di legge per l’erronea applicazione degli artt. 40 e 43, co. 3 cod. pen. nonché vizio motivazionale.
Ad avviso dell’esponente i dati fattuali depongono per l’avvenuta informazione dei lavoratori in merito al rischio di asfissia, nel quale é quello connesso alla presenza di azoto all’interno dell’accumulatore; l’assenza del permesso di lavoro, la prescrizione impartita al L.S. dal D.M. di attenderlo, la consapevolezza del primo che l’apertura del passo d’uomo poteva essere funzionale alla aerazione dell’apparecchiatura anche mediante aria compressa, sono elementi che dimostrano che il L.S. non volle tener conto del divieto di accesso e che con imprudenza gravissima e più che cosciente aveva vanificato i plurimi presidi di sicurezza approntati nello stabilimento.
Contesta il ricorrente che sia stata provata l’esistenza di una prassi derogatoria a quella prevista nel DVR, ovvero mancante della fase della bonifica con vapore, citando a conforto quanto al riguardo scritto dal primo giudice; e critica che la Corte di Appello abbia ritenuto non imprevedibili i guasti del dreno e della flangia, senza considerare la concomitanza dei guasti, da ritenersi imprevedibile.
Il datore di lavoro aveva adottato plurimi presidi di sicurezza sicché, in presenza di inconvenienti, erano le maestranze nel corso delle riunioni giornaliere a dover assumere le decisioni necessarie o attendere che il datore di lavoro fosse reso partecipe delle criticità insorte.
Nel concreto era avvenuto proprio che il D.M. aveva impartito ai lavoratori l’ordine di non recarsi presso l’accumulatore; la Corte di Appello ha “travisato tout court quanto é emerso dagli atti”.
Ad avviso dell’esponente non é sostenibile che il DUVRI abbisognasse di aggiornamento o di modifica. Facendo riferimento agli artt. 18 e 29 d.lgs. n. 81/2008 si afferma che non ricorrevano le premesse normative per la modifica del DVR e del DUVRI, che peraltro il Tribunale aveva ritenuto completo.
La mancanza di cartelli segnaletici dipese dagli imprevisti verificatisi e non é possibile affermare che ove presenti il tragico evento non si sarebbe realizzato. Peraltro, ai sensi dell’art. 163 d.lgs. n. 81/2008, non occorreva apporre la segnaletica.
In conclusione, si sostiene che l’esistenza del nesso causale sia stata affermata senza tener conto delle circostanze del caso; tra le quali l’esponente evidenzia la volontà che animò la condotta dei soccorritori del L.S., finendo anche loro per soccombere.
Infine, si critica la ritenuta insufficienza dell’imposto divieto di accesso.
7. Il 30 ed il 31.12.2015 sono pervenuti distinti atti di revoca della costituzione della parte civile CGIL Regionale della Sardegna e della FIOM CGIL.

Diritto:
8. I ricorsi sono infondati.
9. Per ragioni di miglior intelligenza della presente decisione appare opportuno prendere le mosse dal ricorso proposto nell’interesse dello S.D..
9.1. Quanto al ricorso a firma dell’avv. Omissis, l’esponente assume una posizione di principio, per la quale la posizione di garanzia andrebbe definita alla luce della misura che si sarebbe dovuta adottare e che adottata avrebbe evitato il sinistro; siffatta tesi è errata, perché confonde il piano dell’identificazione della posizione di garanzia (in una dimensione per così dire ‘statica’) con quello dell’individuazione della condotta cautelare che si sarebbe dovuta tenere (dimensione ‘dinamica’ della responsabilità colposa). Per quanto le due operazioni possano avere punti di contatto (come hanno punti di contatto l’obbligo di diligenza e la diligenza doverosa), si tratta di piani distinti. Alla ricerca della posizione datoriale va identificato chi sia munito dei poteri qualificanti, ai sensi dell’art. 2 lett. b) d.lgs. n. 81/2008; operazione che prescinde totalmente dall’evento concretamente determinatosi, dovendosi guardare alla relazione tra poteri e plesso organizzativo, nel senso che va ricercato chi sia munito dei poteri di ‘governo’ del plesso in questione, secondo i dettami della disposizione testé menzionata.
Allorquando l’evento illecito si verifica concretamente, imposto dalla necessità dell’accertamento penale che ipotizza una responsabilità colposa, inizia a dipanarsi un percorso a ritroso che da quello conduce alla misura cautelare non osservata che, ove adottata, sarebbe valsa ad evitarlo; e quindi all’accertamento dell’inerenza di quella regola all’area di rischio governata da questo o da quel garante. Per esemplificare: nel caso in cui un lavoratore precipiti al suolo perché privo di cintura di sicurezza andrà accertato se non ne fosse stato dotato o se, avendole, ed essendo stato adeguatamente formato ed informato intorno all’uso della stessa, non l’avesse indossata. In un caso risulta violata la regola che impone di dotare il lavoratore della cintura; regola che rimanda al datore di lavoro. Nel secondo ad esser violata é la regola che impone di vigilare sull’effettivo uso dei dispositivi di sicurezza posti a disposizione dal datore di lavoro; regola che chiama in causa il preposto. Ma chi debba essere identificato come datore di lavoro non dipende dal fatto che nella vicenda concreta a dover essere osservata era la prescrizione, indirizzata al datore di lavoro, di fornire la cintura di sicurezza; bensì dalla titolarità dei poteri di cui al menzionato art. 2 lett. b) d.lgs. n. 81/2008.
Non é quindi motivo di esclusione della posizione datoriale rispetto all’unità organizzativa di Sarroch in capo allo S.D. il fatto che egli avesse poteri decisionali meramente integrativi, e che la loro attivazione non fosse richiesta dalle misure mancate nel caso di specie. Quel che rileva é che egli avesse poteri decisionali e di spesa in grado di ricondurre a sé le scelte organizzative e gli assetti di quella unità, sia pure per quelli di maggior impegno finanziario.
Peraltro, nel caso che occupa l’affermazione di principio che si é discussa viene calata in una ricostruzione priva di fondamento, ovvero che “la dinamica in ipotesi costituente l’antecedente causale dell’evento é pacificamente confinata entro il perimetro dei poteri organizzativi e decisionali costituiti mediante procura in capo al direttore dello stabilimento”. Ben diversamente, la Corte di Appello ha identificato quale antecedente causale dei tragici eventi l’omesso adempimento di un obbligo datoriale, quale quello dell’aggiornamento dei documenti di valutazione del rischio; aggiornamento imposto dalla esistenza di un potere discrezionale dei capi turno di scostarsi dalle prefissate procedure di bonifica e, nello specifico, dalla circostanza che la bonifica – mediante insufflaggio di azoto – dell’accumulatore D106 era stata eseguita con il coperchio del serbatoio aperto e non imbullonato (cfr. pg. 30 e 31, 33-38 della sentenza). In termini ancor più netti la Corte di Appello ha affermato che la valutazione del rischio era stata manchevole della considerazione del rischio di guasto a componenti dell’accumulatore quali il dreno di fondo e la cerniera di sostegno della flangia del passo d’uomo, sicché era rimasto rimesso ai capi turno l’adozione delle soluzioni ritenute più appropriate; come quella di insufflare l’azoto nonostante l’apertura dell’accumulatore. Per le medesime ragioni sarebbe stata dovuta – ed era mancata – la comunicazione all’impresa appaltatrice, anche in considerazione del fatto che essa non riceveva alcuna informazione sui lavori compiuti dagli operatori S. fino a quando non fosse stato rilasciato loro il permesso di lavoro. Comunicazione che incombeva ancora una volta al datore di lavoro- committente.
Sicché, il ricorso fa mostra di pretermettere il contenuto dell’ascrizione, quando focalizza l’attenzione sulla mancata apposizione delle segnaletica, che é solo una delle condotte attribuite agli imputati.
Mentre correttamente la Corte di Appello, una volta rinvenute inadempienze che chiamano in causa la figura datoriale, si é interrogata in merito alla riconducibilità ad essa della persona dello S.D., alla luce della dotazione di poteri fatta in favore del G.G.. E, con motivazione immune da censure, che tiene conto dei dati probatori disponibili, ha ritenuto che in capo allo S.D. fossero stati riservati ampi poteri decisionali e di spesa in materia antinfortunistica, anche rispetto alla raffineria di Sarroch, e che anzi egli si fosse anche concretamente ingerito nell’organizzazione del sistema della sicurezza sul lavoro di tutta la società ivi compresa la sede di Sarroch (pg. 57-58 della sentenza; la censura mossa al riguardo dall’esponente si muove sul piano della inammissibile prospettazione di ricostruzione alternativa dei fatti). Così manifestando di aver mantenuto per sé i poteri concernenti le scelte strutturali aziendali.
Resta da rimarcare la incongrua (alla luce di quanto sin qui esposto) evocazione del principio di effettività (art. 299 d.lgs. n. 81/08), il quale impegna a riferire l’obbligo giuridico non solo a chi ha una qualifica formale ma anche a chi esercita concretamente il ruolo. In forza dell’art. 299, le posizioni di garanzia gravano infatti su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati. Peraltro, nel caso che occupa la Corte di Appello ha spiegato come il potere datoriale fosse stato concretamente esercitato da parte dello S.D. (previsione della doppia firma e convenzione per la nomina di coordinatore per la sicurezza).
9.2. I motivi esposti con il ricorso a firma dell’avv. Omissis sono parimenti infondati. Invero, la più parte di essi risultano inammissibili, perché non é consentito con il ricorso per cassazione introdurre una ricostruzione dei fatti, alternativa a quella fatta propria dai giudici di merito, perché ritenuta maggiormente persuasiva, senza rivolgere specifiche critiche all’impianto argomentativo edificato dal provvedimento impugnato.
Vale ricordare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989).
Quanto sin qui esposto permette di superare senza particolare discussione i rilievi che pretendono di veder avallato il giudizio dell’avvenuta dimostrazione che i lavoratori erano stati informati del rischio di asfissia, della imprevedibilità dei guasti perché concomitanti, dell’adozione di adeguate misure di sicurezza.
Appaiono invece aspecifiche le considerazioni svolte a riguardo del comportamento del L.S., che avrebbe tenuto un comportamento gravemente imperito, tale da non permettere di affermare che, ove esistente un’idonea segnaletica, questa avrebbe impedito il verificarsi dell’evento; ed altrettanto deve affermarsi per i rilievi che prendono le mosse dalla valutazione delle condotte del B.M. e del D.M..
Si tratta di considerazioni che non tengono conto di quanto già osservato dalla Corte di Appello, in replica ad analogo motivo di appello (cfr. pg. 46 e 47 della sentenza impugnata). La consolidata giurisprudenza di questa Corte insegna che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’Impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
Per altro verso l’esponente muove una censura infondata ai giudici distrettuali, che proprio come il primo giudice hanno ritenuto – non già provata l’esistenza di una prassi derogatoria a quella prevista nel DVR, ma – dimostrata la sussistenza di un potere di scelta lasciato agli operatori, che si era tradotto nell’esecuzione del sufflaggio di azoto con l’accumulatore aperto.
E affermare che in presenza di inconvenienti erano le maestranze nel corso delle riunioni giornaliere a dover assumere le decisioni necessarie o attendere che il datore di lavoro fosse reso partecipe delle criticità insorte sta proprio a dimostrare la fondatezza dell’assunto della Corte di Appello, del porsi, a monte dell’intera vicenda, l’assenza di una corretta analisi dei rischi.
In merito ai presupposti dell’obbligo di aggiornamento dei documenti di valutazione dei rischi, giova rammentare che l’art. 18, lett. z) del d.lgs. n. 81/08 dispone che il datore di lavoro deve “aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”; mentre l’art. 29, co. 3 del medesimo testo prescrive che “La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali”.
Ben diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’aggiornamento dei documenti di valutazione é imposto quando si verificano mutamenti organizzativi o produttivi che hanno ricadute (rilevanza e significatività appaiono qui concetti sovrapponibili) sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. La normativa non richiede che si tratti di ricadute di particolare importanza; come ben affermato dalla Corte di Appello, é sufficiente che si sia determinato un aumento del rischio perché si imponga un aggiornamento dell’analisi del rischio.
Le restanti doglianze sono comuni ad alcune di quelle avanzate dal G.G.; troveranno quindi risposta in quanto ci si avvia ad esporre.
10.1. Con riferimento all’impugnazione proposta dal G.G., va in primo luogo osservato, in relazione alla prima delle censure avanzate, che essa sottende l’assunto secondo il quale, adottata la procedura del permesso di lavoro quale misura procedurale funzionale a gestire il rischio interferenziale, sarebbero confinate nell’irrilevanza le altre misure, previste dall’ordinamento prevenzionistico, che hanno quale scopo quello di eliminare o ridurre rischi sui quali ‘impattano’ quelle misure procedurali. Si tratta di una tesi non condivisibile, che può essere analizzata sotto diverse angolazioni.
Per un primo aspetto, essa chiama alla considerazione della relazione tra rischio interferenziale e altri rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Il rischio interferenziale é quello che nasce proprio per il coinvolgimento nelle procedure di lavoro di diversi plessi organizzativi; se ne potrebbe parlare come di una specie del più ampio genus del rischio da organizzazione del lavoro, a sua volta affiancato da altri tipi di rischi, come quello meccanico (connesso all’uso di macchine), quello fisico (connesso all’esposizione agli agenti fisici di cui all’art. 180, co. 1 d.lgs. n. 81/2008), quello biologico (connesso all’esposizione agli agenti biologici di cui all’art. 267 d.lgs., n. 81/2008) e così seguitando. La presenza di un rischio interferenziale, lungi dal negare o inglobare i rischi specifici presenti nell’ambiente di lavoro anche in assenza del concorso di più organizzazioni, impone di prenderli in considerazione anche nella peculiare prospettiva, come dimostra la previsione dell’art. 26 d.lgs. n. 81/2008, per la quale il datore di lavoro committente fornisce alle imprese appaltatrici e ai lavoratori autonomi “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alle proprie attività”. Quindi il rischio interferenziale ‘convive’ con gli altri rischi lavorativi; e le misure che fronteggiano il primo coesistono con quelle che si indirizzano ai secondi.
Sotto una diversa prospettiva, che guarda alla relazione tra regole cautelari previste dalle fonti primarie e sub-primarie e regole cautelari individuate dallo stesso datore di lavoro nell’ambito di quell’attività di autonormazione che trova la sua più evidente espressione del documento di valutazione dei rischi, può considerarsi che nella materia prevenzionistica (ma non solo), le regole cautelari che devono trovare applicazione sono quelle che valgono a fronteggiare il rischio lavorativo prevedibile ed evitabile; vale anche in quest’ambito il più generale principio per il quale la regola cautelare fonda la propria cogenza sulla propria efficacia. Sicché, solo la sicura inefficacia delle regole cautelari previste dalle fonti statuali, primarie o secondarie, può condurre ad escludere che esse fondino un giudizio di responsabilità per l’evento realizzatosi (ma resta ferma la rilevanza della violazione ove dia corpo ad una contravvenzione o ad un illecito amministrativo) nel caso che non se ne sia fatta applicazione.
Queste ovvie considerazioni permettono di concludere rapidamente sul punto: ai fini della responsabilità in caso di infortunio o malattia, la predisposizione da parte del datore di lavoro committente di misure atte alla gestione del rischio interferenziale non esclude la necessità di adottare le misure previste per i diversi rischi specifici, a meno che non si tratti di provvidenze non compatibili. Il principio può essere formulato anche nei termini seguenti: “ai fini della responsabilità penale per l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale, la individuazione di misure di prevenzione operata dal datore di lavoro nell’ambito dell’attività di autonormazione prevista dal d.lgs. n. 81/2008 – in particolare di quella cui rimanda l’art. 26, co. 2 d.lgs. n. 81/2008 – non esclude la cogenza delle misure previste dalla normativa statuale, a meno che queste non risultino – non solo inefficaci ma – dannose ai fini della messa in sicurezza dell’ambiente di lavoro”
Va quindi negato che in ragione della prevista procedura del permesso di lavoro – la quale mirava ad escludere che dipendenti delle ditte appaltatrici giungessero a contatto con l’accumulatore prima che la committenza avesse accertato la sussistenza di condizioni di lavoro sicure – potesse legittimare l’inosservanza di prescrizioni prevenzionistiche, quali quelle della segnalazione della presenza di azoto all’interno dell’accumulatore, poste a governo del rischio specifico connesso al particolare agente fisico. D’altro canto, é agevole comprendere che la segnaletica si imponeva a garanzia di qualsiasi soggetto, dipendente del committente come di altri, fosse intenzionato ad entrare nell’accumulatore.
Va anche aggiunto che la censura in esame non si indirizza anche agli ulteriori profili di colpa pure evidenziati dalla Corte di Appello. Sicché essa risulterebbe in ogni caso non decisiva.
10.2. Quanto appena puntualizzato instrada anche verso l’esame del secondo motivo. Ancora una volta, il punto di vista svelato dalla prospettazione del ricorrente é quello di chi considera la procedura del permesso di lavoro misura che esautora quella prevista in materia di segnaletica; e questa volta perché valendo essa come misura ‘collettiva’ la stessa disposizione di legge (l’art. 163) ne sancisce la prevalenza. Non si coglie, però, che l’art. 163 si rivolge a tutti i possibili soggetti esposti al rischio (nella specie da agente fisico) e non solo a quelli delle ditte appaltatrici; coloro che non risultavano interessati alla procedura del permesso di lavoro non avrebbero certo potuto giovarsi di questa ed é rispetto ad essi che si imponeva comunque l’apposizione della segnaletica. Ciò svela la conseguente infondatezza della affermazione di una erronea applicazione dell’art. 227, co. 3 d.lgs. n. 81/2008.
Per le stesse ragioni non coglie il segno il rilievo che rimarca la contraddittorietà tra l’imposizione di un divieto e la prescrizione di regole per lo svolgimento dell’attività vietata; nel caso che occupa l’uno e l’altra si proiettano su ambiti soggettivi non coincidenti.
Quanto alla concreta inefficacia della segnalazione – desunta dalla manifestata inefficacia della procedura del permesso di lavoro – la questione attiene al profilo della causalità della colpa, venendo negata in definitiva la valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito. Se ne parlerà più avanti.
10.3. Nel resto il ricorso opera una critica alla sentenza impugnata che ripropone le censure che, mosse dall’appellante S.D., hanno già trovato risposta ad opera della Corte di Appello. Tali repliche non sono considerate dal ricorrente. In particolare, per quanto attiene alla ritenuta omessa considerazione delle riunioni di coordinamento, quale momento di socializzazione delle informazioni agli operatori delle ditte appaltatrici, a pg. 39 e s. la Corte di Appello spiega – richiamandosi adesivamente a quanto scritto dal g.u.p. – che nelle riunioni di coordinamento che avevano preceduto l’evento non era stata fornita alcuna informazione sull’apertura del passo d’uomo, sulla sua chiusura provvisoria e sull’insufflaggio di azoto; e ciò per ragioni ‘strutturali’, ovvero proprio per la funzione assegnata alla procedura del permesso di lavoro.
Il quarto motivo é manifestamente infondato. Affermare che le morti si verificarono perché venne violato il divieto di accesso all’accumulatore é possibile solo tralasciando di considerare quelle che per i giudici di merito furono le cause dei tragici eventi, ovvero i difetti organizzativi strutturali e congiunturali del sistema di sicurezza che permise l’accesso all’accumulatore da parte del L.S. e poi del B.M. e del D.M..
Le critiche che, nel contesto del secondo e del quarto motivo, si muovono al giudizio di evitabilità dell’evento, riposano anch’esse sul fraintendimento del giudizio espresso dai giudici dì merito, i quali non hanno accordato rilievo causale alla chiusura del passo d’uomo con una busta di nylon piuttosto che con il coperchio in metallo ma alla mancanza di informazioni, anche, ma non solo, di quelle fornite da segnaletica che indicasse la presenza di azoto all’interno dell’accumulatore e quindi del rischio di asfissia.
In merito alla abnormità del comportamento dei lavoratori deceduti, rilevata la estraneità ai temi proposti dalla vicenda che qui occupa della cd. colpa per assunzione (che, a tacer d’altro, si riferisce al destinatario di una contestazione per reato colposo; giammai alle vittime di esso), la Corte di Appello ha replicato del tutto congruamente a pg. 46 e 47, laddove ha descritto nella inconsapevolezza della presenza di azoto all’interno dell’accumulatore la ragione della entrata in esso del L.S. e nella condizione emergenziale imposta dalla necessità di salvare il collega in una situazione di pericolo non adeguatamente conosciuta le ragioni dell’ingresso nell’apparecchiatura anche del D.M. e del B.M..
Comportamenti quindi tutt’altro che abnormi, perchè per nulla eccentrici rispetto alle mansioni affidate (rilievo che vale in particolare per il L.S.); e che, per porre la questione in termini che appaiono maggiormente acconci, per certo non possono dirsi esorbitanti rispetto all’area di rischio affidata alla gestione anche del G.G..
4.7. Infondato è infine l’ultimo motivo. Le ordinanze che ammettono o escludono la parte civile non sono impugnabili, onde la costituzione ammessa non è contestabile nei gradi successivi di giudizio (Sez. 4, n. 6363 del 08/05/1998 – dep. 30/05/1998, Rogen F, Rv. 211229).
4.8. A riguardo delle menzionate costituzioni sono pervenute le già menzionate dichiarazioni di revoca.
Una prima, relativa alla CGIL Regionale della Sardegna, é sottoscritta dall’avv. Omissis, che si afferma “rappresentante e difensore di fiducia” della parte civile; una seconda,relativa alla FIOM Sardegna, é sottoscritta dal sig. M.C. che si afferma legale rappresentante della medesima.
Orbene, giova rammentare che la revoca della costituzione di parte civile, a mente dell’art. 82 cod. proc. pen., se non fatta in udienza, é fatta con atto scritto depositato nella cancelleria del giudice e notificato alle altre parti. Nel giudizio di cassazione la revoca della costituzione di parte civile può essere effettuata personalmente o a mezzo di procuratore speciale per cui non è valida se compiuta mediante dichiarazione con firma autenticata dal difensore (Sez. 4, n. 990 del 17/12/2013 – dep. 13/01/2014, R.C. e Pasqui, Rv. 257908). In ossequio al tenore letterale dell’art. 82, co. 1 cod. proc. pen., la revoca della costituzione di parte civile è valida e giuridicamente efficace soltanto se compiuta mediante dichiarazione personale, o a mezzo di procuratore speciale, presentata al cancelliere dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale è pendente il procedimento, che la riceve e la rende autentica. Pertanto, la rinuncia effettuata mediante dichiarazione a firma autenticata dal difensore, fatta pervenire al giudice, è priva di valore e non può valere come revoca della costituzione.
Tanto implica la invalidità della revoca di costituzione di parte civile a firma dell’avv. Omissis, risultando dalla medesima che legale rappresentante della CGIL regionale della Sardegna é il sig. M.Ca..
Ma anche l’invalidità della ulteriore revoca in atti, per non essere stata data la prova dell’avvenuta notifica dell’atto alle altre parti, ovvero al P.G. e agli imputati.
Tanto importa l’impossibilità di addivenire all’annullamento senza rinvio della sentenza in ordine alle statuizioni civili in esse contenute, relative alla CGIL Regionale della Sardegna e alla FIOM Sardegna.
11. Segue al rigetto dei ricorsi la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7/1/2016.

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