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Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 aprile 2016, n. 7125 – Malattia professionale. Cuffie antirumore e vigilanza sull’effettivo loro utilizzo

SentenzaFatto: Con ricorso al Tribunale di Messina, C.P. premesso di aver lavorato alle dipendenze della società C. s.p.a., poi, C. eTourist s.p.a., dal 2.5.1969 fino al 27.4.2000, da ultimo con la qualifica di Capo Motorista, esponeva di aver contratto, a causa delle mansioni espletate (all’interno della sala macchine e, pertanto, costretto a respirare gas di scarico ed esposto a rumori di rilevante entità), una grave ipoacusia bilaterale e broncopatia cronica ostruttiva unitamente a cervicoartrosi e poliartrosi diffusa. Invocava la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. per non aver la società ottemperato ai propri obblighi volti alla salvaguardia e tutela della salute dei lavoratori, con condanna della stessa a risarcirgli il danno biologico patito in conseguenza delle contratte infermità.
Si costituiva la società contestando la fondatezza della domanda di cui chiedeva il rigetto.
La causa, istruita con l’audizione dei testi addotti dalle parti, veniva decisa il 4.2.2004 con il rigetto della domanda.
Ritenne il primo giudice non provata da parte del lavoratore l’esistenza di un rapporto di causalità tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza in relazione al lavoro svolto ed il danno all’integrità psico-fisica di cui il C.P. aveva lamentato la lesione.
Sottolineava il Tribunale che già nel novembre del 1981 al ricorrente era stata fornita la ‘cuffia antirumore’ e che nel 1992 esso era stato imbarcato sulla nave “G. Pranza” dotata di “control room”, ossia di una zona comandi insonorizzata; e che, peraltro, i locali delle macchine risultavano adeguatamente ventilate e prive di fumi di scarico.
Avverso la detta sentenza interponeva appello C.P. deducendone l’erroneità.
Si costituiva la società C., deducendo l’infondatezza del gravame di cui chiedeva il rigetto.
La Corte d’appello di Messina, con sentenza depositata il 3 dicembre 2013, disposte due c.t.u., in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava la C. e Tourist s.p.a. a corrispondere al C.P., per i titoli azionati, la somma di €. 151.256,00, oltre interessi dalla data di proposizione della domanda giudiziale.
Riteneva la Corte fondato l’appello promosso dal C.P. limitatamente alla sussistenza del nesso eziologico tra la denunciata ipoacusia e l’attività lavorativa da esso espletata, e provato l’inadempimento datoriale relativo al cd. obbligo di sicurezza, rilevando che non tutte le motonavi su cui fu imbarcato il C.P. erano munite di misure protettive e che non era poi sufficiente l’adozione di misure e dispositivi protettivi senza la vigilanza che le prime venissero osservate e che i secondi venissero effettivamente utilizzati dai lavoratori.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste il C.P. con controricorso.

Diritto: Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.115 e 116 c.p.c., in relazione alle conclusioni della c.t.u. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n.4 c.p.c.).
Lamenta che la sentenza impugnata non valutò adeguatamente le conclusioni del c.t.u. laddove aveva affermato che le ipoacusie professionali “sono figlie della collocazione temporale del lavoro stesso, in un contesto tecnologico superato dai tempi” e che dunque la fornitura o meno dei dispositivi di protezione individuali (d.p.i.), sia per la loro continua evoluzione ed obsolescenza, sia in quanto il personale di macchina non poteva farne un uso costante (per la necessità, ad esempio, di sentire l’efficienza del motore) era irrilevante.
Il motivo, che peraltro denuncia la nullità della sentenza impugnata per una pretesa erronea valutazione della c.t.u., è inammissibile per due ordini di ragioni.
In primo luogo in quanto non è stata prodotta la c.t.u. in questione, in contrasto con l’art. 369 c.p.c.; in secondo luogo poiché finisce per censurare, nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione della consulenza, secondo il motivato avviso della sentenza impugnata confermativo della riconducibilità della ipoacusia in questione all’ambiente di lavoro. Su tali questioni non può poi che rinviarsi alle considerazioni che seguono.
2. – Con il secondo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c.; 115, 116 e 195 c.p.c. (art. 360, comma 1, n.4 c.p.c.).
Lamenta che la sentenza impugnata, in contrasto con l’onere probatorio gravante sul lavoratore, ritenne di poter evincere dalla (pretesa) mancata fornitura delle cuffie antirumore la violazione dell’obbligo di sicurezza, laddove risultava che il C.P. sin dal 1981 aveva in dotazione tali dispositivi ed inoltre, negli anni 90, egli era imbarcato su motonavi dotate di ‘control room’ che consentiva il controllo a distanza dei motori; parimenti illogiche e solo congetturali erano le affermazioni dei giudici di appello secondo cui la società non avrebbe vigilato sull’effettivo utilizzo dei d.p.i. (ritenuti immotivatamente insufficienti) e sulla loro efficienza.
Anche tale motivo risulta inammissibile per censurare, nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., la motivazione della sentenza impugnata sui punti in questione.
A ciò deve aggiungersi che la Corte di merito ha accertato che per un lungo lasso di tempo (1985-1992) il C.P. svolse le sue mansioni di motorista su motonavi non dotate di ‘control room’ e che dalle testimonianze raccolte era emerso che sino al 1988 gli addetti alla sala motori non erano dotati di cuffie antirumore. Deve in ogni caso evidenziarsi che l’ipotetica obsolescenza dei d.p.i., ovvero l’utilizzo di altri sistemi (es. control room) non elimina certamente l’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., che per il suo carattere di norma di chiusura del sistema protettivo (cfr., ex aliis, Cass. n. 4840\2006, Cass. n. 12138\2003), impone comunque all’imprenditore di adottare tutte le misure che secondo l’esperienza e la tecnica siano in grado di tutelare e garantire l’integrità psico fisica del lavoratore, restandone quindi esclusi solo gli atti e comportamenti abnormi ed imprevedibili del lavoratore, idonei ad elidere il nesso causale tra le misure di sicurezza adottate e l’eventuale danno realizzatosi (ex plurimis, Cass. n. 27127\2013).
3. – Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2087 c.c., in relazione al nesso di causalità tra la presunta condotta colpevole e la malattia del lavoratore (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.).
Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente di addossare sulla datrice di lavoro l’onere di provare l'(in)esistenza del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e la patologia denunciata dal lavoratore.
Il motivo è infondato, posto che la Corte di merito ha ritenuto provato, dalle testimonianze escusse e dalle altre circostanze di causa, ivi compresi gli accertamenti peritali, la morbigenità dell’ambiente di lavoro denunciata dal lavoratore, ed il nesso causale tra esso e la patologia lamentata dal C.P..
4. – Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’alt. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.: La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’interiore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 gennaio 2016

FONTE: Cassazione Civile

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