Conservazione elettronica della fatturaPA
Tanti i dubbi legati agli adempimenti amministrativi e in Unico 2015.
Lo scorso 31.03.2015 si è realizzato il definitivo passaggio dalla fattura cartacea a quella digitale per tutti i fornitori della Pubblica amministrazione.
Tutti gli operatori, che effettuano:
• cessioni di beni;
• o prestazioni di servizi;
nei confronti della PA, sono tenuti a rispettare l’obbligo di emissione in forma elettronica del documento.
Va detto che già dal 6 giugno 2014 tali regole sono divenute operative per le amministrazioni centrali.
In pratica:
– dal 6 giugno 2014 la fattura elettronica è diventata obbligatoria nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza e assistenza sociale censiti nell’elenco Istat;
– dal 31 marzo 2015 l’obbligo di fatturazione elettronica è stato esteso alle operazioni verso tutte le altre amministrazioni pubbliche.
Il legislatore garantisce, tuttavia, un trimestre di transizione (dal 01.04.2015 fino al 30.06.2015), necessario per far fronte ai pagamenti delle fatture cartacee già emesse.
Le PA interessate dall’obbligo non possono accettare fatture emesse o trasmesse in forma cartacea e soprattutto non possono procedere a pagamenti, anche parziali fino a invio in forma elettronica.
L’obbligo riguarda l’emissione, la trasmissione, la conservazione e l’archiviazione delle fatture esclusivamente in formato elettronico.
La conservazione – L’obbligo dell’adozione della fattura elettronica comporta la nascita di numerosi dubbi in merito al comportamento da adottare circa il luogo di conservazione dei documenti informatici.
Il D.M. 17.06.2014 all’art. 5 comma 2, prevede che:
“In caso di verifiche, controlli o ispezioni, il documento informatico è reso leggibile e, a richiesta, disponibile su supporto cartaceo o informatico presso la sede del contribuente ovvero presso il luogo di conservazione delle scritture dichiarato dal soggetto ai sensi dell’art. 35, comma 2, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. L’art.35 comma 2 lett. d) del D.P.R. 633/72, a sua volta prevede: “1. I soggetti che intraprendono l’esercizio di un’impresa, arte o professione nel territorio dello Stato, o vi istituiscono una stabile organizzazione, devono farne dichiarazione entro trenta giorni ad uno degli uffici locali dell’Agenzia delle entrate ovvero ad un ufficio provinciale dell’imposta sul valore aggiunto della medesima Agenzia; la dichiarazione è redatta, a pena di nullità, su modelli conformi a quelli approvati con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate. L’ufficio attribuisce al contribuente un numero di partita I.V.A. che resterà invariato anche nelle ipotesi di variazioni di domicilio fiscale fino al momento della cessazione dell’attività e che deve essere indicato nelle dichiarazioni, nella home-page dell’eventuale sito web e in ogni altro documento ove richiesto.
2. Dalla dichiarazione di inizio attività devono risultare:
[…] d) il tipo e l’oggetto dell’attività e il luogo o i luoghi in cui viene esercitata anche a mezzo di sedi secondarie, filiali, stabilimenti, succursali, negozi, depositi e simili, il luogo o i luoghi in cui sono tenuti e conservati i libri, i registri, le scritture e i documenti prescritti dal presente decreto e da altre disposizioni”.
Queste due disposizioni vanno coordinate anche con quanto disposto dagli artt. 39 e 52 del D.P.R. 633/72, cioè: “L’ispezione documentale si estende a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l’accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali (art.52)”.
“Le fatture create in formato elettronico e quelle cartacee possono essere conservate elettronicamente. Il luogo di conservazione elettronica delle stesse, nonché dei registri e degli altri documenti previsti dal presente decreto e da altre disposizioni, può essere situato in un altro Stato, a condizione che con lo stesso esista uno strumento giuridico che disciplini la reciproca assistenza. Il soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato assicura, per finalità di controllo, l’accesso automatizzato all’archivio e che tutti i documenti ed i dati in esso contenuti, compresi quelli che garantiscono l’autenticità e l’integrità delle fatture di cui all’articolo 21, comma 3, siano stampabili e trasferibili su altro supporto informatico (art. 39)”.
L’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti sulla questione nella Circolare n.18/E/2014. In particolare al paragrafo 1.5. si dice che l’emittente della fattura elettronica ne garantisce l’origine informatica e l’integrità del contenuto e procede con la diretta conservazione elettronica della fattura emessa.
Qualora il soggetto passivo scelga di conservare la propria documentazione presso altro Stato, dovrà, in ogni caso: applicare le regole di tenuta e conservazione previste dalle disposizioni italiane; consentire alle autorità competenti (Amministrazione finanziaria italiana) di accedere ai documenti e acquisirli anche per via elettronica. A tale fine, il soggetto passivo, residente o domiciliato nel territorio nazionale:
a) ai fini della comunicazione del luogo di conservazione elettronica dei documenti fiscalmente rilevanti, deve riportare nei modelli di comunicazione AA7 e AA9, nel rispetto dei termini previsti dall’articolo 35 del D.P.R. n. 633 del 1972, gli estremi identificativi dei luoghi di giacenza fisica dei server dove sono conservati i documenti, anche se essi risiedono all’estero;
b) ai fini dell’esibizione, deve assicurare l’accesso automatizzato all’archivio, con ogni mezzo, in qualsiasi momento e dalla sede dove è effettuato il controllo ai sensi dell’articolo 52 del D.P.R. n. 633 del 1972.
La frase “anche se essi risiedono all’estero” ha creato scompiglio nel mondo dei consulenti.
È obbligatorio ed opportuno indicare il luogo fisico di conservazione dei documenti digitali, come le fatture elettroniche?
Secondo quanto stabilito dal legislatore, il contribuente potrebbe tranquillamente tenere copia dei dati conservati presso la propria sede o presso quella del consulente.
Certo è che un chiarimento da parte dell’Agenzia sarebbe opportuno.
Unico 2015 e il quadro RS – Da quest’anno in Unico 2015 in tutti i modelli, è stato aggiunto un nuovo prospetto denominato “Conservazione dei documenti rilevanti ai fini tributari” (es. rigo RS40 in Unico SP 2015), necessario per comunicare di aver effettuato la conservazione in modalità elettronica dei documenti rilevanti ai fini tributari nel periodo d’imposta di riferimento (art. 5, comma 1, D.M. 17 giugno 2014).
Nel rigo RS40 va indicato: il codice 1, qualora il contribuente nel periodo di riferimento, abbia conservato in modalità elettronica almeno un documento rilevante ai fini tributari; il codice 2, qualora il contribuente nel periodo di riferimento, non abbia conservato in modalità elettronica alcun documento rilevante ai fini tributari (art. 5, comma 1, D.M. 17 giugno 2014). Tale rigo non deve essere letto come un campo da compilare col codice 1, se si conserva elettronicamente un documento elettronico come la fattura PA, ma come la scelta della conservazione sostitutiva dei registri contabili.
La compilazione di tale rigo va a sostituire la non più necessaria comunicazione dell’impronta digitale all’Agenzia delle Entrate.
Non è, difatti, più necessario procedere all’invio dell’impronta dell’archivio informatico per estendere la validità dei documenti informatici conservati prima dell’entrata in vigore del D.M. 17 giugno 2014 (“Modalità di assolvimento degli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici ed alla loro riproduzione su diversi tipi di supporto – articolo 21, comma 5, del decreto legislativo n. 82/2005”).
Questa la conclusione cui giunge l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 4/E del 19 gennaio 2015, in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 7, comma 3, del D.M.
Fino all’entrata in vigore di quel provvedimento, coloro che provvedevano alla digitalizzazione documentale e alla conservazione sostitutiva dei documenti informatici rilevanti ai fini fiscali avevano l’obbligo di inviare l’impronta dell’archivio informatico con le modalità previste dall’articolo 5 del Dm 23 gennaio 2004. Lo scopo era quello di datare con certezza l’esistenza dei documenti e delle firme apposte, eliminando il problema legato alla scadenza dei certificati di firma digitale.
Il D.M. 17 giugno 2014 ha stabilito, con il comma 2, che, con la sua entrata in vigore, è abrogato il D.M. 23 gennaio 2004, e, con il comma 3, che “le disposizioni di cui al decreto 23 gennaio 2004 continuano ad applicarsi ai documenti già conservati al momento dell’entrata in vigore del presente decreto”.
Sembrerebbe, pertanto, che per i documenti conservati prima dell’entrata in vigore del D.M. 17 giugno 2014, continua a sussistere l’obbligo di trasmettere alle competenti Agenzie fiscali l’impronta dell’archivio informatico oggetto della conservazione, la relativa sottoscrizione elettronica e la marca temporale (articolo 5, comma 1, D.M. 23 gennaio 2004).
Tale obbligo, però, aveva la finalità di “estendere la validità dei documenti informatici”, esigenza poi superata dai Dpcm 30 marzo 2009 e 22 febbraio 2013, in base ai quali “tutte le marche temporali emesse da un sistema di validazione sono conservate in un apposito archivio digitale non modificabile per un periodo non inferiore a venti anni ovvero, su richiesta dell’interessato, per un periodo maggiore”.
Ecco perché non occorre più inviare l’impronta dell’archivio informatico per estendere la validità dei documenti informatici conservati prima dell’entrata in vigore del D.M. 17 giugno 2014, ma compilare il quadro RS sì.
FONTE: fiscal-focus.info