Dal 1° Marzo TFR in busta paga: ecco come esercitare l’opzione
Continua l’opera di trasformazione del Tfr, che dal 1° marzo potrà acquisire la forma di un’integrazione della retribuzione mensile.
E’ questo il principale effetto prodotto dal comma 26 dell’art. 1 della legge n. 190/2014. Con il nuovo comma 756-bis dell’art. 1 della legge n. 296/2006 si introduce la possibilità per il dipendente privato in servizio da almeno sei mesi, di chiedere al proprio datore di lavoro, per i periodi decorrenti dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, la liquidazione in busta paga dell’importo mensile che avrebbe maturato ai sensi dell’art. 2120 del codice civile.
Ancora una volta, dopo il primo intervento effettuato in occasione della riforma della previdenza complementare in vigore dal 2007, il Governo decide di intervenire su questo istituto tipicamente italiano, modificandone radicalmente la natura e le conseguenti modalità di gestione.
Nel 2007 con il D.Lgs n. 252/2005 era stata data l’opportunità di destinare il Tfr a un fondo pensione, al fine di creare o implementare una posizione pensionistica individuale integrativa rispetto a quella obbligatoria per legge (anche in considerazione degli effetti “riduttivi” prodotti dal sistema di calcolo contributivo sulla misura dei trattamenti pensionistici).
La nuova natura del Tfr
Da marzo viene ora riconosciuta al dipendente un’ulteriore e alternativa possibilità, cioè quella di chiedere il pagamento mensile dell’importo maturando di Tfr (nel medesimo mese), che in tal modo diventa, come precisa la stessa norma, un’integrazione della retribuzione, previdenzialmente non imponibile, da assoggettare a tassazione ordinaria.
La nuova opzione, che si aggiunge a quelle già esistenti (mantenimento in azienda o trasferimento ad un fondo pensione), rischia però di modificare le scelte già effettuate, posto che lo stesso art. 6 della legge di Stabilità prevede che la scelta della monetizzazione può riguardare anche la quota già destinata al fondo pensione.
Poiché questa previsione confligge con la regola contenuta nel D.Lgs. n. 252/2005 secondo cui la scelta in favore del trasferimento al fondo pensione non era revocabile, se non in caso di totale riscatto della posizione pensionistica, si deve ritenere che il nuovo legislatore privilegi le esigenze dell’oggi (integrare il netto mensile) a quelle del domani (integrare la pensione), e non intenda escludere nessun lavoratore da questa chance di integrazione del proprio reddito.
Le conseguenze dell’opzione
La legge di Stabilità precisa che la manifestazione della volontà in favore della liquidazione monetaria, una volta effettuata, non possa essere modificata fino al 30 giugno 2018.
La norma riserva questa nuova possibilità a tutti i lavoratori dipendenti privati, esclusi gli agricoli e i domestici, con almeno sei mesi di anzianità di servizio presso il datore di lavoro tenuto all’erogazione, ed esclude dall’obbligo le sole aziende sottoposte a procedure concorsuali e quelle in crisi in base all’art. 4 della legge n. 297/1982.
La nuova opzione produce effetti differenziati nei confronti dei numerosi soggetti coinvolti. Il primo interessato è sicuramente il dipendente che attraverso la nuova scelta potrà fruire di un incremento del netto in busta paga. Ma il beneficio sarà fortemente attenuato dalla circostanza che sull’integrazione della retribuzione subirà la tassazione ordinaria, con applicazione dell’aliquota marginale Irpef e delle addizionali, mentre sull’importo erogato a fine rapporto di lavoro a titolo di Tfr avrebbe subito la tassazione separata, che è una tassazione Irpef (escluse addizionali) agevolata in quanto tiene conto del fatto che la somma è maturata nel corso del rapporto a fronte di un’erogazione differita al momento della cessazione.
Ecco perché il maggior guadagno sarà per l’Erario, che incasserà subito e cioè mese per mese, un’Irpef più alta in quanto calcolata con modalità ordinaria.
A perdere saranno i fondi pensioni che per i prossimi tre anni, salvo successive proroghe, rischiano di perdere una delle più importanti fonti, rappresentata appunto dal Tfr trasferito dai lavoratori dipendenti.
I conti per le piccole aziende
Non è ancora chiara la misura degli effetti finanziari che potranno subire i datori di lavoro con meno di 50 addetti, che fino a oggi potevano ancora far affidamento sull’autofinanziamento rappresentato dal Tfr accantonato in azienda e non trasferito ai fondi pensione. Qualora i dipendenti delle piccole aziende decidano di fruire di questa integrazione reddituale, il datore di lavoro sarà obbligato a smobilizzare gli importi, eventualmente avvalendosi di un finanziamento assistito da garanzia di un apposito Fondo statale istituito presso l’INPS con pagamento di tassi di interessi e spese che, secondo la legge, non dovrebbero superare l’indice di rivalutazione del Tfr, e che saranno definiti da un futuro accordo quadro Lavoro-Finanze-Abi.
Ma l’effetto più immediato ed evidente sarà comunque rappresentato per aziende, consulenti, e software houses dall’ulteriore complicazione “gestionale” ed ”amministrativa” del Tfr, o meglio di quello che fino al 31 dicembre 2006 era una semplice forma di retribuzione differita e che dal 2007 a oggi può assumere forme diverse, e cambiarle nel corso della vita lavorativa. A “perdersi” probabilmente non saranno solo gli operatori del settore, che in fase di assunzione dovranno intervistare in modo approfondito il lavoratore sulle pregresse scelte effettuate, ma anche gli stessi lavoratori che potranno non avere più contezza di quella che un tempo era una consolazione economica della fine del rapporto di lavoro.
FONTE: lavorofisco.it